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Nel 1976, quando i suoi volumi su Wolf (1961) e Schumann (1975) sono saldamente in catalogo insieme al piccolo libro su Brahms (1972), e una serie di saggi su Schubert lascia intendere che il volume sui suoi Lieder sia prossimo, Eric Sams accetta la sfida di diventare critico d'opera per il New Statesman, il settimanale di sinistra nato col supporto di Bernard Shaw e diretto pro tempore da Anthony Howard (che aveva reclutato anche Christopher Hitchens e Martin Amis). Nel primo articolo ("Blue Murder"), Sams racconta con ironia epica il suo sconfinamento dal mondo del Lied a quello dell'opera; ma già dalla primissima recensione la naturalezza della cultura melodrammatica messa in campo è straordinaria, e tanta conoscenza e competenza sono anche il sintomo di amore per l'opera e umana comprensione per le debolezze del suo pubblico, pronto ad assistere al rito sospendendo il senso critico e logico in termini quasi fideistici. Il suo punto di forza è il gioco di parole come simbolo di quel gioco di società che è l'opera lirica, basato sul virtuosismo talvolta vacuo di autori e interpreti. Così, il continuo virtuosismo linguistico del calembour è la candela che dà la scintilla al motore a tre tempi delle sue critiche (esposizione, recensione, sintesi sociologica) ma getta anche una calda luce sulla sua prosa brillante e conferisce un'espressione sorridente (talvolta beffarda) anche alle riserve più severe sull'opera e i suoi interpreti. Lo stesso fa Sams con i libri e i loro autori, in una serie di recensioni la cui lettura resta godibile a decenni di distanza, anche se i libri (così come le produzioni operistiche) sono nel frattempo caduti nel dimenticatoio.
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