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Scrivere un romanzo musicale oggi potrebbe essere un mezzo di rara efficacia per avvicinare i lettori al repertorio cosiddetto "classico", sempre meno praticato e familiare. La fluidità della narrazione e l'attrattiva esercitata dalla trama consentono di parlare di musica con un tono più libero e seduttivo rispetto alla saggistica, e non per questo necessariamente meno preciso, come ci hanno insegnato oltre ogni ragionevole dubbio Proust e Thomas Mann. Tuttavia, a un certo punto bisogna scegliere: saggio o romanzo; e perché romanzo sia, dovremo trovarvi almeno un carattere che viva di virtù propria, e non perché riempito di dotte allusioni. Nattiez è un irriducibile saggista e i suoi personaggi parlano sempre come se stessero tenendo una lezione; sicché risultano insopportabili come il gruppetto di "wagneriani perfetti" descritti in una spiritosa vignetta nelle prime pagine del libro: che per prendere un taxi esplodono nel grido delle valchirie, per ordinare una birra battono sul tavolo al ritmo dell'incudine di Sigfrido e se vedono un passero fischiettano l'aria dell'uccellino della foresta.
Si direbbe che Nattiez abbia voluto scrivere un libro sulla morte, quantomeno sull'autoreferenzialità della musica, dato il totale fallimento a cui vanno incontro i suoi tre protagonisti: puniti, quantomeno, per la loro saccenza. Il critico finisce per capire che la grande idea su cui aveva edificato la sua fama era una pura costruzione intellettuale; il compositore Jagermaier, fulgida promessa della musica d'avanguardia, smarrisce rovinosamente l'ispirazione nel momento in cui si lascia sedurre dal miraggio dell'opera e ancor più dalle tentazioni del pastiche polistilistico; la soprano perde precocemente la voce, espiando così, come le eroine di Hoffmann, la sua smania di cantare, e soprattutto di dominare un repertorio che va da Monteverdi fino, appunto, all'avanguardia. La vicenda è ambientata fra il 1967 e il 1969, con la primavera di Praga sullo sfondo: ed è interamente percorsa dal tema dell'acqua e dal profilo di una Venezia prima visionaria, poi realisticamente connessa con gli eventi dell'azione. Alla Fenice, teatro delle grandi "prime" di Britten, Stravinsky e Prokofiev, dovrebbe andare in scena la fantomatica opera del titolo: sostituita all'ultimo momento da un Otello che Jagermaier si offre graziosamente di dirigere: e qui Nattiez esagera un po': "Il pubblico italiano è come è", sentenzia, prima di dire che quella sera gli spettatori applaudirono dopo l'Ave Maria, cosa che temo sarebbe capitata anche al Covent Garden; e soprattutto attribuendo all'incolpevole pubblico la reazione inverosimile di fischiare il compositore d'avanguardia che si è abbassato a dirigere, badate bene, non Il finto Stanislao, ma Otello.
Forse alla fine la cosa più divertente del romanzo è proprio il finto articolo sull'"opera come acqua", miscuglio di Freud e di supponenza, con una vistosa amnesia del Boccanegra, che ovviamente Pierre, il critico progressista, sdegna di citare, o probabilmente ignora (come ignora Otello). Ma perché triturare così, oggi, le avanguardie? E perché creare tre figure così inguaribilmente narcisistiche e vuote, i cui gesti non sono che la replica di scene d'opera o di luoghi comuni? Questo non è un romanzo per fare amare la musica, ma per rendere antipatici anche quelli che la amano.
Elisabetta Fava
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