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Come muta il nostro modo di rapportarci volta a volta con un ciottolo di fiume, un paesaggio, un arte-fatto (mettiamo: uno scolabottiglie), un’opera come la Venere di Milo? Può la riflessione teorica sull’arte garantire nella relazione estetica la distinzione fra due pianti, uno genericamente estetico; e l’altro specificamente artistico? E può farlo, alla fine, abbandonando legittimamente la domanda essenzialistica del che cosa ? (l’arte) per dislocarsi sul terreno funzionale del quando? (o magari del come?). Contro ogni oggettivismo volto a ricercare nell’opera in quanto tale i fattori della sua bellezza e artisticità, Gérard Genette adotta una prospettiva
teorica rigorosamente soggettivistica: non è l’oggetto che rende estetica la relazione, ma la relazione che rende estetico l’oggetto. Ci sono diversi modi di fruire di un oggetto estetico a seconda che il suo valore aspettuale produca semplicemente un’attenzione e un apprezzamento soggettivi e mutevoli (mi piace, è bello) ovvero che si riconosca in esso (a torto o a ragione) anche una candidatura (intenzionale) a essere apprezzato come opera fra le opere (d’arte). In specifico, la ricezione di un’opera d’arte non potrà che essere modulata anche da una complessa trama di variabili di tipo storico e culturale. Il titolo principale, l’Opera dell’arte, sta dunque a designare, ambiziosamente, l’operare dell’opera d’arte spessa, un operare (è questa la funzione artistica) che agli occhi del fruitore sembrerà oggettivamente motivato, ma che dal punto di vista della teoria estetica, risulterà tanto più libero, rischioso, piacevole, quanto più sarà restituito alla sua autentica dimensione soggettivistica.
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