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Anno edizione: 2005
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In un'intervista del 1966 con Madeleine Chapsal, Michel Foucault, per spiegare le relazioni che tengono unita la storia dei sistemi di pensiero occidentali, ricorreva all'esempio dei miti dell'età classica, all'interno della cui narratività le vicende degli dei, degli eroi e dei guerrieri, pur apparendo molto diverse le une dalle altre, erano legate da un'organizzazione di senso che "obbedisce" a un sistema unico. In altre parole, la struttura organizzativo-testuale che racconta le gerarchie, le lotte, i tradimenti, le imprese e le astuzie dei protagonisti della mitologia greca (sebbene sia rintracciabile un'analogia di stilemi anche nei miti celtici e scandinavi) può essere immaginata come un sistema caratterizzato fondamentalmente da un'univocità tematica e da un linguaggio "formulare" che la rende una sorta di lente magica passe-par-tout per la comprensione dei grandi temi emotivi dell'umanità.
L'agile testo di Angelo Semeraro si muove confortevolmente e in maniera originale in questo registro semantico, percorrendo in una sorta di disvelamento archetipale i binari del rapporto mito/attualità. In esso, i caratteri nodali dell'eroe omerico propongono una mitopoiesi che non è mai fenomeno modaiolo di semplice - ma spesso sterile - ricerca di significati condivisi all'interno dell'immaginario tardo-moderno, ma una lettura sempre liminare e trasformativa (non a caso l'autore parla di Umbildung ) dei processi antropologici che "parlano prima" (direbbe Lacan) dell'individuo (il Sapiens ).
Ecco allora che i valori della "stirpe divina", come l'onore ( timé ), l'ira ( menis ), la vergogna ( aidòs ), il valore ( areté ) militare e umano vengono serviti come ingredienti insostituibili per dotarci, in un'epoca densa di ostilità e di lutti, di un'auspicabile "etica del conflitto", quanto meno nell'attesa di costruire un'etica del riconoscimento. È proprio attorno al termine "riconoscimento" che l'autore tesse il discorso sull'altro, vero filo rosso del libro. In un precedente lavoro, Calypso, la nasconditrice (Manni, 2003), Semeraro suggeriva come il "buon ascolto", nell'accezione che ne dà Bois ( The art of awareness , 1973), costituisca sempre la fonte generatrice di nuovo senso e sia pensabile come metafora del contro-dono ermeneutico nei contesti di comunicazione. In Omero a Baghdad questa traccia si arricchisce di suggestioni, pur rimanendo salva la coerenza alla responsabilità dell'educatore: nell'ascolto delle diverse forme di pathos che gronda dai personaggi di Iliade e Odissea è possibile ri-conoscere la trama dei propri sentimenti. La condivisione del dolore oltrepassa allora il concetto di empatia e, attraverso una strutturata analisi che percorre in maniera acuta i contributi, tanto di Spinoza, Bataille e Dumoulié quanto di Rousseau, Kojeve e Honneth (tra gli altri), esamina gli spasimi di Pentesilea e di Elena, la m étis di Ulisse e la pietas di Penelope, le "passioni tristi" di Achille e Aiace, nella rapsodia emozionale di un racconto che insegna nel dolore ( pàthei màthos ).
Il dolore dei poemi omerici, tuttavia, non ha i tratti del dolore cristiano, il suo fine non è un sacrificio salvifico ma, ancora una volta, pertiene a un vettore di trasformazione: Achille deve trasformare la sua collera in dolore perché solo in questo modo il suo risentimento verso Priamo può lasciare il posto a un reciproco riconoscimento, trasfigurando il nemico nell'altro. Ecco allora che il conflitto risentimento/riconoscimento - facendo flirtare René Girard con il Vecchio Testamento - viene proposto come interfaccia mitico-emozionale di una questione molto più attuale e problematica, quella dell'identità. In Omero a Baghdad il termine "identità" non si incontra molto frequentemente, ma l'autore, tra le impennate desiderative (e "cannibaliche") della Pentesilea di von Kleist e i dilemmi etici ed estetici dell'Odisseo di Vernant, ne disegna il dispiegarsi attraverso l'ordine simbolico del mito. In questo modo, nei tre capitoli del libro, il discorso sulle identità viene tratteggiato "in maniera gentile" (come il pennello dell'archeologo che spolvera i rinvenimenti del passato, direbbe Freud), senza ricorrere a una paideia che impone un imprinting , bensì in maniera mercuriale, in un percorso articolato lungo una serie di insights naturali, all'interno del quale la normatività non può che esprimersi attraverso "un'etica e un'educazione del/al desiderio".
E "desiderio" è l'altra parola chiave dell' Omero di Semeraro. Il desiderio come mancanza e attesa è sempre passione verso l'altro e l'altrove (suggestivo il percorso filologico-ermeneutico che dal Gorgia platonico passa per Lacan e Bataille), come nei casi del desiderio frustrato di Achille e del "cannibalismo desiderante" delle amazzoni. In questa tensione si gioca il tema delle identità e del rapporto con l'altro, analogamente alla metafora del "due" di Erri De Luca: l'attenzione verso l'altro da noi ha probabilmente la sua radice nella (ego-centrata) mancanza che si trasforma in desiderio dell'alterità, «il vuoto che il desiderio rende manifesto è una dimensione di ignoto, di una estraneità che apre una distanza nel soggetto».
Nella dicotomia risentimento/riconoscimento e nello slargo di senso che porta dal desiderio all'altro, dunque, Semeraro ci conduce attraverso il mito e la "paideia guerriera" delle civiltà arcaiche, interrogando il sapere delle quali riconosciamo molto spesso i gap della contemporaneità e l'incultura di morte dei nostri tempi così votati al conflitto. " Omero c'est nous ", suggerisce Semeraro. Mai tanta saggezza fu così attuale!
Mimmo Pesare
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