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Odisseas Elitis (1911-1996), insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1979, è una delle figure più significative della poesia contemporanea greca. La sua produzione, ancora poco conosciuta in quell’anno, è ormai entrata di diritto nel bagaglio e nell’immaginario letterario italiano ed europeo. Questo volume, frutto del convegno tenutosi a Roma nel 2006, a dieci anni dalla sua scomparsa, e prova evidente della fortuna della sua voce poetica, restituisce un ritratto fedele e completo dell’opera di Elitis. Poeta greco ed europeo insieme, «europeo per metà» appunto, come si è autodefinito lui stesso: un poeta che si muove fra tradizione e innovazione. Sempre fedele a se stesso eppure sempre nuovo, alla continua ricerca di sé e della sua «parola» che si confronta con i grandi di tutta la tradizione greca, dai lirici agli innografi bizantini, dalla letteratura neogreca dell’Ottocento ai propri contemporanei – Seferis, Embirikos, Sarandaris,Gatsos –, ma capace anche di stabilire un dialogo diacronico con i grandi della letteratura e dell’arte europee. Poesia sensuale, la sua, ma sostenuta da una geometrica concezione del mondo. Luminosa e ottimistica anche se non priva di ombre e sempre tesa allo scavo interiore, capace di fondere sentimento e pensiero, lirismo e prosa. La natura e la lingua greche, colonne portanti del suo universo poetico, sono la via per una conoscenza «altra» della realtà, e ci fanno entrare nel suo «secondo» mondo che fa da specchio al primo, dove la natura ha un valore analogico e il paesaggio è una sorta di metafora.
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I crucci e i passi di un poeta, le stazioni dei suoi respiri, la tavola imbandita di niente, di tutto, di lettere, e in esse un destino di borghi ancora intatti, di attese e di incontri, del divino nella chiarità di un'isola, del mito millenario nei suoi aliti, nei suoi stessi stenti, del viso di una donna. Difficile uscire indenni da questa biografia bellissima, viaggio in una vita che ha intagliato poesia, pittura, ricerca, amore e lotta come folgori o muse attorno al suo cammino. Come stagioni dello spirito che hanno pian piano scolpito la sua essenza poetica, dal Surrealismo, che egli amò e subì come una grande epifania nei sui sensi, alla realtà più diretta e odiosa della guerra dove il male e la speranza, nei suoi versi, scorrono come su un lenzuolo tristemente imbrattato: "Il mondo non chiede tanto,/ qualcosa di minimo./ Come la sterzata prima dell'incidente/ma precisamente nella direzione contraria./ Abbiamo venerato a sufficienza il rischio: è ora che ci ricompensi". Una Grecia, una Patria amata come dentro la più alta sacralità, echi profondissimi di una religione sentita diventano nel suo percorso un altro snodo maestro, la Bibbia, una specie di trinità Patria Fede e Grecia che dona suoni e incanti di forza irraggiungibile. E poi l'amore, cicatrice e carezza sul mistero della pelle, dell'oltre, del segreto, della nature del vivere: "Ah, quanti tramonti ho visto e quanti corridoi di teatri antichi ho attraversato,/ ma non mi ha mai prestato un po' di bellezza il tempo/e una vittoria per sconfiggere il nero e prolungare la durata dell'amore,/cosicché sia più ingegnoso e melodico dal suo pulpito/il canto dell'allodola ch'è in noi./Nube accigliata che solleva come una piuma uno schietto "no"/e poi ricade e tu ti sazi di pioggia/diventi coetaneo dell'intatto senza conoscerlo". Aggiungere altre parole sarebbe sfregiare le sue e questo lavoro saggistico, vero raffinatissimo regalo. Un cuore che è il canto di una patria, e di una vita. La stessa cosa.
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