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L' occhio e la storia. Scritti di critica d'arte (1936-1938) - Anthony Blunt - copertina
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L' occhio e la storia. Scritti di critica d'arte (1936-1938) - Anthony Blunt - copertina
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1999
432 p., ill. , Rilegato
9788845601989

Voce della critica


recensioni di de Seta, C. L'Indice del 2000, n. 10

Di Anthony Blunt (1907-1983), uno dei maggiori storici dell'arte del Novecento, si sono occupate le cronache quando nel 1979 si scoprì che era stato, dal 1939 al 1945, un agente del Kgb: da allora in poi Sir Anthony è uscito dalla storia dell'arte ed è entrato nel mondo variegato e cannibalesco dei media. Cinema, televisione, letteratura scandalistica e anche narrativa (si veda il pretenzioso L'intoccabile di John Banville) l'hanno assunto a campione negativo di quell'ambiguo mondo intellettuale, tipicamente anglosassone, che ebbe rapporti con i servizi segreti al di qua e al di là della cortina di ferro. Per chi lo conobbe da vicino come storico dell'arte questo schiumare di interessi ha davvero scarso rilievo, e il merito del volume dei suoi scritti di critica d'arte (1936-1938) - impeccabilmente tradotto e curato da Massimo Negri - è quello di ricondurre l'attenzione sullo studioso e il connaisseur dall'occhio infallibile.
Gli scritti antologizzati riguardano la sua attività di critico militante - attività ignota ai più - e di sagace flâneur in gallerie pubbliche e private, e consentono di risalire agli anni giovanili della sua formazione di storico dell'arte all'Università di Cambridge. Da questo punto di vista mi pare importantissimo il profilo autobiografico che viene allegato in appendice, Da Bloomsbury al marxismo (1973), che Blunt scrisse per gli allievi del Courtauld Institut of Art, di cui fu il prestigioso direttore dal 1947 fino al pensionamento, facendone una delle grandi scuole di storia dell'arte del nostro tempo. Quantunque il tono sia apparentemente svagato, queste pagine ci fanno capire molte cose di lui: il padre pastore protestante di cultura ruskiniana, i suoi dieci anni da adolescente trascorsi in Francia, la prima visita al Louvre durante la prima guerra mondiale, l'innato interesse per l'architettura "che non mi ha mai lasciato" e che per un'intera vita onorò. Un'educazione severa in famiglia che ha il suo riscontro pubblico nell'altrettanto severa scuola di Marlborough prima, di Cambridge poi; l'ostilità motivata all'insegnamento più tradizionale: che "la storia dell'arte finisse con i Preraffaelliti" fu un'idea che non lo convinse. Una passione per la poesia latina e elisabettiana: "trovavamo Marlowe e Webster molto più interessanti" di Shakespeare; questi giovani ribelli
leggevano Gertrude Stein, il Joyce pre-Ulysses, l'Eliot di The Waste Land, la prima Woolf. Il suo anticonformismo gli consentì di accostarsi precocemente alla civiltà del Barocco (la cui letteratura era pressoché inesistente), nel 1923 ebbe la rivelazione di Cézanne, i Fauves, Matisse, poi i cubisti con Picasso, Braque e Léger in prima linea. La "forma pura" di Roger Fry e Clive Bell era guida al suo apprendistato.
Ogni primavera il giovane Anthony era a Parigi per riempirsi gli occhi di musei e di quell'aria particolare che si percepiva nelle gallerie che erano, a quel tempo, il centro dell'arte nel mondo. Blunt era così legato alla città che quando s'avvide che New York la soppiantava come centro egemone di ricerca - per la quale non nutre alcuna simpatia - si volse senza rimpianti e senza esitazioni ai suoi interessi dominanti per la civiltà del Rinascimento e del Barocco privilegiando la Francia e l'Italia. Argomenti sui quali non è del tutto vero che nessuno in Italia si sia pre-occupato di indagare, come sostiene Gianfranco Fiaccadori nella sua bella premessa volta a delineare un profilo della cultura di quegli anni in Inghilterra. Il barocco leccese affascina Blunt proprio come capitò due secoli prima a un genio come George Berkeley. I suoi interessi per l'arte contemporanea si risolvono in recensioni pubblicate prevalentemente su "The Spectator" e "Left Review", e alcune linee di ricerca saltano all'occhio: la scelta marxista a partire dal '33 - ma sempre più duttile del dottrinarismo antaliano -, che segna l'abbandono del formalismo per un marcato interesse al "soggetto"; la passione per ogni grande realismo che abbraccia in una prospettiva organica Goya e Hogarth, Velázquez e van Gogh, Courbet e Zoffany; l'attenzione alla decorazione come sistema autonomo d'espressione, sia la chinoiserie o il Gauguin haitiano; l'adesione a una razionalità illuminista alla Diderot - di cui è un ammirato lettore e di cui condivide la passione per Chardin e Watteau - ci fa capire quanto poco marxista sia il marxista Blunt.
La secca efficacissima scrittura - negli anni della maturità si fa più tornita ed elegante - è ben presente in questi scritti giovanili che non cedono mai alla non motivata originalità, al gusto di sorprendere, allo snobismo. Concetto e costume quest'ultimo che è stato - quanto a sproposito! - troppe volte utilizzato nel dire di lui. Blunt fu tutto il contrario di uno snob e questo lo percepisce da ogni sua pagina anche chi non l'ha mai conosciuto.
Pochi nel nostro tempo hanno dato un contributo così rilevante alla lettura della civiltà barocca, che sul gusto dello spettacolo e della sorpresa aveva costruito la sua poetica: ma su quale fosse la caratura di tale lettura è bene intendersi. Di Nicolas Poussin - il più letterato tra i pittori del Seicento - fu uno dei maggiori esegeti, ma seppe parimenti seguire col suo occhio Pietro da Cortona e Borromini, riconducendo la loro ricerca nell'ambito di una razionalità altra, ma non per questo meno aderente alla fattuale intelligenza tettonica di una nuova forma. Di qui il fastidio - affiorante in molti articoli - per quel vociare sopra le righe dei Surrealisti, o la pre-
sa di distanza dal Picasso post-cubista, così genialmente camaleontico nel suo insuperato talento. Quando all'Esposizione di Parigi del 1937 vede Guernica ne resta scosso, ma non convinto. Trova che questo grido lacerante, sia appunto troppo gridato: il suo understatement non l'accetta. "È un affascinante decadenza", dirà di Picasso, "è il raffinamento estremo di una tradizione morta, che non avendo nulla di importante da dire continua a rielaborare le vecchie cose che erano importanti prima della guerra e i modi per esprimerle". Riconosce sì il grande contributo alla lotta contro Franco, ma non è convinto dal modo in cui la conduce: "ricordiamoci quanto disse Michelangelo a un artista che gli mostrava la sua scultura nello studio facendo in modo che la luce cadesse nel modo più favorevole: 'Non ti affaticare, ché l'importanza sarà il lume della piazza'". E qui sta il profondo iato tra il critico che parlando di Picasso cita Vasari, e il critico che rincorre l'ultima moda. Questo radicalismo giovanile lo rinnegherà negli anni della maturità: ma pure l'andare controcorrente è parte del carattere intellettuale e delle scelte ideologiche e politiche bluntiane. L'ossatura metodologica del suo ragionare sta nel riconoscere la "differenza fra importanza storica e qualità artistica" - come dice felicemente Negri -, e qui non ci sono stampelle che sorreggono il critico, siano la "pura forma" o l'ondata dei "significati" warburgiani di quei primi anni trenta: quel che guida il critico è il suo "istinto", la sua "sensibilità". In questo Blunt è erede dell'empirismo settecentesco anche se la sua frequentazione con la diaspora tedesca (con Friedländer lavora su Poussin, di Wittkower è amico) conferisce anche a queste note una sostanza che sarebbe difficile riconoscere nella tradizione ruskiniana.
Ma da Warburg e da Saxl non si fece mai incantare, quei "significati" appaiono alla sua intelligenza troppo concettosi, di qui la (ricambiata) scarsa simpatia per il warburgiano Gombrich: tant'è che il Courtauld Institut sotto la sua guida divenne il vero polo alternativo al Warburg Institut. Accanto all'arte contemporanea - ci sono incursioni felici anche sull'architettura razionalista invisa ai suoi compatrioti - assumono un particolare rilievo e hanno una loro omogeneità le note sull'arte inglese del Settecento, momento fondante di questa civiltà artistica. Su Reynolds e Gainsborough interviene più volte, non nasconde la sua propensione per il secondo e ne mette in luce, assai precocemente, la rilevanza che ebbe per tutta la tradizione dell'Impressionismo francese. Anche da queste note, che mediamente non superano le due pagine, vien fuori il grande occhio di Blunt, la sua straordinaria attitudine a riconnettere fili apparentemente distinti, la sua capacità di associazione e la sua tempra di storico che non si lascia andare alla sensiblerie, né adotta modelli ideologici e storiografici che siano camicie di Nesso. Di qui la distanza tra gli scritti di questi anni - così fortemente segnati dall'opzione marxiana - e la produzione della sua maturità.

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