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Una storia che si costruisce attraverso i non detti dei personaggi, i loro silenzi e gli sguardi carichi di emozioni che rimangono intime, trattenute, destinate a chiudere i protagonisti ciascuno nel proprio mondo separato dagli altri. E per contro, la loquacità piena di saggezza semplice della portinaia Lena, testimone degli eventi; quella che rimane mentre il palazzo crolla sotto le bombe e che, fedele, fiduciosa, aspetta il ritorno degli altri per consegnare la mappa dei loro sentimenti, per poter chiudere il portone rimasto in piedi in mezzo alle macerie, come se fosse la chiusura del cerchio di una vita; la vita di tutti i protagonisti di quel microcosmo che era il palazzo. Per concedere spazio a un nuovo inizio. Una storia semplice ma emozionante e significativa, che sebbene si svolga nell’arco di svariati anni, ha il sapore di un racconto, di uno spaccato di vita in cui si concentra l’essenza di coloro che l’hanno vissuta. È la dimostrazione che la guerra ha segnato in mille modi diversi l’esistenza delle persone, cambiandone il corso, portando alla luce aspetti umani orribili, ma in tanti casi esemplari e toccanti. Soprattutto è la narrazione del rapporto tra un bambino e il proprio padre, fatto di pochissime parole, di giovani occhi che scrutano e interpretano i gesti, le frasi sussurrate, spezzate, le assenze, qualunque dettaglio possa fugare il timore delle aspettative tradite, che l’amore incondizionato per il genitore non trovi rispondenza in quella figura amorevole ma sfuggente. Davvero indimenticabile e profondo il passaggio che spiega il titolo del libro. Credo che chiunque possa trovarci qualcosa per sé, qualcosa che sta dentro il proprio bagaglio sentimentale dove custodiamo quegli sguardi che ci hanno spiegato ciò che le parole non hanno mai detto, quelli che abbiamo imparato a capire solo alla fine, quando le parole non servivano più. Singolare, inaspettato e prezioso nella sua cifra discreta, questo libro va oltre la storia in sè.
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