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recensione di Cavaglion, A., L'Indice 1997, n. 1
Sull'onda (forse) del successo ottenuto da Zargani esce un nuovo libro su Argonopoli. Chiamiamo così, per consuetudine e omaggio a Primo Levi, una componente di Torino che attira oggi i narratori piemontesi più dell'altra, Faussonopoli, ingiustamente passata in second'ordine. L'esperimento di Marcello Randaccio ("Le finestre buie del 1943", Piazza, 1994) e l'indagine rigorosa per analisi delle fonti storiche, ma anche ben narrata, di Fabio Levi su Emilio Foa ("L'identità imposta", Zamorani, 1995) ci avevano già aiutato a illuminare meglio il variopinto serraglio e l'idioma gentile di quella minoranza le cui palpebre s'indorano di una lacrima
al sapere che il piemontese "baita" possa derivare dall'ebraico "bait''.
Siano ventidue o ventitré le lettere dell'alfabeto, con buona pace di Beniamino Placido, Erri De Luca e della semitistica accademica, nei dintorni di Torino si continua a pensare che Argonopoli sia un'utopia realizzata, il migliore dei mondi possibili, specie se poi si ha la possibilità di fare qualche escursione in Valle d'Aosta, dove ridenti villaggi portano aspri nomi biblici che finendo quasi tutti in "-od" sono tremendamente simili ad altrettanti plurali femminili dell'adorata favella dei padri e dei nonni.
Di un nonno, Enrico Vitta (Monsù Vitta) per l'appunto, ci parla Astrologo, concedendo in verità all'autobiografia solo qualche cenno nelle ultime pagine di un romanzo in tutto e per tutto di finzione, che volutamente trasfigura, fino a renderlo inconoscibile, il ricordo di un personaggio all'autore assai caro. Vissuto a cavallo fra Otto e Novecento Vitta porta all'esasperazione le proverbiali stranezze, e la lombrosiana genialità, dei cittadini di Argonopoli. Sregolato, anarchico e allo stesso tempo doppiamente aristocratico come molti suoi concittadini e correligionari - in quanto appartenenti alla città che già fu capitale del Regno e rampollo di una nobile progenie mosaica -, Vitta vive delle cospicue rendite avute in eredità dal padre.
"Gli occhi colore del tempo" ha pagine ben riuscite nella rievocazione di una Torino operaia d'inizio secolo che invero appartiene a Faussonopoli (le lavandaie, i mercati popolari, le piole, le case con il "pugiöl") e nella raffigurazione buia e opprimente di una Torino fascista osservata per via di metafora di morte, da un ospedale dove Vitta termina i suoi giorni. Il disegno d'insieme del romanzo, tuttavia, convince meno. Certi personaggi femminili ("le fragoline") sono tutti eguali e ripetitivi. La Torino metafisica e vagamente cabbalista dei rabbini è modellata su recenti letture di filosofia ebraica, che non trovano fondamento negli annali di Argonopoli e non hanno corrispondenza effettiva nelle tradizioni di un ebraismo che ha sempre, se mai, ceduto alle sirene del razionalismo con vie di fuga spiritiste normalmente ( e provocatoriamente) "ariane". Il misticismo ebraico a Torino ha avuto pochi seguaci e nessun maestro.
La borghesia dei matrimoni combinati è ben dipinta invece in certi scorci domestici che ci sembra di toccare con mano, ma il tutto è guastato da una certa decadenza svenevole dei toni. Quello che i narratori di Argonopoli, specie gli ultimi, non riescono a mettere bene a fuoco è che, in questa città immaginaria fin che si vuole, l'ombra di Pitigrilli è assai poco un'ombra e il pericolo delle dolicocefale bionde continua sempre a essere dietro l'angolo.
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