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Quando, nel 1892, Evelina Cattermole, celebre sotto lo pseudonimo "Contessa Lara", colloca al centro del romanzo L'innamorata (a cura di Riccardo Reim, pp. 205, 12, Avagliano, Roma 2007) una cavallerizza da circo, non fa che riproporre un fantasma erotico già presente nei sogni dei suoi contemporanei. Era una cavallerizza la protagonista della Falsa amante (1841)di Balzac, Malaga; tra realtà e letteratura, aveva poi sedotto il pubblico parigino Céleste Mogador, che in una fortunata autobiografia del 1854 aveva raccontato, con pari compiacimento, le sue prodezze di acrobata e le sue avventure di cortigiana. È soltanto nelle prime pagine de L'innamorata, però, che vediamo Leona, detta "La perla di Granata", volteggiare in groppa al suo destriero arabo. Un incidente interviene ben presto a strapparla al mondo del circo: in un viale di Villa Borghese, il conte Paolo Cappello tenta di baciarla per scommessa ma, in seguito alla reazione durissima di lei, che lo prende a scudisciate, cade da cavallo e rimane ferito. Pentita, e naturalmente avvolta in un fitto velo nero, Leona accorre al capezzale del giovane, lo assiste nella convalescenza e ne diventa la devotissima amante. Sono le vicissitudini di questo amore a fornire l'intreccio del romanzo. Dopo pochi mesi di passione, il conte è ben lieto di sbarazzarsi dell'ingombrante "perla di Granata". La rivorrà qualche tempo dopo, per puntiglio, ma finirà per sacrificarla alla prospettiva di un ricco matrimonio.
Unico romanzo della Contessa Lara, L'innamorata è oggi molto più interessante per la cornice del racconto che per le analisi psicologiche, fondate sul conflitto tra la "donna violenta", sincera e passionale, e "l'uomo femmineo", "quasi sempre falso, insidioso, calcolatore e cattivo". Lettrice attenta di D'Annunzio, l'autrice si muove con estrema competenza tra "velluti color foglia di rosa" e "corsaletti color scarabeo". Ma il modello sempre presente di Matilde Serao la sollecita anche in un'altra direzione: quella della vita popolare. A questo registro appartengono l'istantanea del teatrino napoletano affollato di "guappi" e "vaiasse" e il vivace episodio della "festa dei moccoli" per le strade di una Roma notturna pittoresca e sguaiata. Contrariamente a quanto annuncia l'editore alla pagina venti, i refusi in questa edizioncina non mancano: gli amanti ad esempio, in una splendida giornata, passeggiano in riva al Tevere "ebbri di sale". Ma la bella introduzione di Riccardo Reim colloca con precisione l'opera nel suo tempo.
La raccolta di novelle recentemente curata, con passione e acribia, da Carlo Caporossi, ci invita alla scoperta di un altro versante dell'opera della scrittrice: la produzione narrativa con cui si conquistò un posto di primo piano nel giornalismo del tempo. Figlia di una pianista e di un avventuriero di origine scozzese, Evelina era cresciuta nel mondo cosmopolita degli artisti fiorentini, e proprio a Firenze aveva raggiunto, a diciott'anni, una certa celebrità con una raccolta di poesie, Canti e ghirlande (1867). Al successo del volume contribuì probabilmente la sua bellezza eterea e delicata; quando il matrimonio con un giovane militare, figlio di un uomo politico celebre, Pasquale Stanislao Mancini, la condusse nel 1871 a Milano, il salotto della contessa Maffei la accolse come l'avevano accolta i salotti fiorentini, festeggiandola non soltanto per le sue doti poetiche, ma anche per la grazia inimitabile con cui recitava i propri versi. Nel 1875, però, uno scandalo impresse alla sua vita una svolta drammatica: fu sorpresa dal marito con un giovane veneziano, Giuseppe Bennati di Bayon, suo amante. Nel corso di un duello alla pistola, il marito uccise il Bennati, e impose alla moglie infedele di lasciare Milano.
Tornata a Firenze, la giovane donna cominciò una nuova, non facile esistenza, su cui la tragedia milanese avrebbe proiettato sempre un'ombra sinistra: figura aureolata di trasgressione e di lutto, nei ventun'anni che le restavano da vivere conobbe diversi legami amorosi, senza però mai trovare un affetto stabile, e si guadagnò coraggiosamente la vita scrivendo su giornali e riviste. Straziante la sua fine, a quarantasette anni: la uccise, per gelosia o per vendetta, uno dei suoi ultimi amanti, un pittore fallito che lei aveva generosamente aiutato. Durante il processo al suo assassino, la curiosità morbosa del pubblico trasformò colei che era stata una poetessa ammirata dai critici e un'attivissima giornalista in un'eroina da feuilleton, in un'icona della cronaca nera; di conseguenza, la sua memoria rimase legata più a un caso giudiziario celebre che alle molte pagine da lei pubblicate.
Eppure, come ci ricorda il curatore nel bel saggio introduttivo di questo volume e nella nota biografica che lo conclude, Evelina Cattermole, che dal 1883 utilizzò lo pseudonimo byroniano di "Contessa Lara", fu tra le più versatili, brillanti e contese giornaliste nell'Italia degli anni ottanta e novanta dell'Ottocento. Queste Novelle toscane scelte con estrema cura nel mare di una produzione a volte ineguale ci mostrano il suo talento alle prese con un ventaglio di generi molto vario: dal ricordo d'infanzia alla cronaca dell'alta società, dalle scene di vita popolare allo studio ravvicinato delle illusioni che accompagnano il risveglio dell'amore nelle adolescenti di buona famiglia. Che la cornice si situi in una villa dei colli fiorentini o in un villaggio di pescatori dell'isola d'Elba, la realtà che ci sfila sotto gli occhi è nota all'autrice in presa diretta; testimone anche la resa linguistica che, tra "parlato" vernacolare e raffinate ricerche fonetiche, conquista una propria inconfondibile singolarità.
Mariolina Bertini
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