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Una nuova traduzione rende giustizia alla bellezza e drammaticità del romanzo. L'India, come beffa di un tragico destino personale e con tutte le sue miserie, nel vissuto di un residente ospite e di altri espatriati alle prese con la battaglia per sopravvivere. Struggente, imperdibile.
Recensioni
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RUSHDIE, SALMAN, Patrie immaginarie, Mondadori, 1992
NAIPAUL, V.S., India. Un milione di rivolte, Mondadori, 1992
DESAI, ANITA, Notte e nebbia a Bombay, La Tartaruga, 1992
recensione di Monti, A., L'Indice 1993, n. 4
L'ultimo volume di una trilogia dedicata da V.S. Naipaul all'India (dopo "An Area of Darkness" e "A Wounded Civilization*) vuole cogliere le sfaccettature del microcosmo indiano dando la parola ai protagonisti. In particolare, i lunghi colloqui avuti a Bombay sono di norma mediati da una terza persona, un interprete che fa da tramite, non solo linguistico, tra Naipaul e la realtà locale. L'impianto è innovativo rispetto ai precedenti libri sull'India, costruiti attorno alle vicissitudini di un io viaggiante calato nel marasma della vita indiana, con esiti stilistici di commedia delle parti. Il filtro oggettivo che l'autore frappone tra la sua visione e l'incontro con la multiforme realtà indiana ha tuttavia come contrappunto un patrimonio personale di ricordi e impressioni maturate nei viaggi precedenti. Il flusso di memoria si rafforza a mano a mano che Naipaul s'inoltra nel subcontinente, venendo a contatto ora con la "modernità" di Bombay, in cui allo sviluppo industriale e al sommovimento di gerarchie considerate immutabili nella società s'intrecciano comportamenti politici e religiosi ispirati alla tradizione, ora con la decadenza di una Calcutta e di un Bengala ormai invivibili, nei quali si è persa traccia dell'ottocentesca cultura di frontiera tra oriente e occidente, ora con un meridione indiano incapace di svincolarsi dal proprio passato. Di fronte a un tale cumulo di dati, spesso in contrasto, le reminiscenze personali dell'autore introducono sequenze di sviluppo diacronico dentro il mondo atemporale indiano. Nell'ambito di questo grande movimento centrale si articolano due successivi paradigmi d'interpretazione: la rivolta contro il sistema brahminico delle caste e l'incapacità che i brahmini stessi hanno di uscire da un torpore ormai più genetico che culturale, come indicano soprattutto due episodi ambientati nel sud.
L'ossessione per la purezza dell'identità di gruppo è al centro di un capitolo ("L'ombra del Guru") dedicato al terrorismo sikh, le cui radici di violenza attingono al ricordo di antiche persecuzioni e alla consapevolezza di vivere in un mondo dominato dall'ingiustizia e dalla violenza. Il risentimento cupo e astioso con il quale la comunità sikh rivendica la propria immagine specifica nei confronti del multiculturalismo indiano non è forse del tutto estraneo, fatte le debite proporzioni, all'atteggiamento psicologico dell'emigrato Naipaul (nato a Trinidad, da famiglia di alta casta originaria dell'India) verso la propria terra di origine, luogo mitico e reso sacro dalla lontananza, ma estraneo e deludente alla conoscenza diretta.
D'altra parte, lo scrittore ha sempre lacerato il proprio equilibrio nella posizione scissa di chi non riesce a cancellare il patrimonio a lui trasmesso dall'induismo, pur riconoscendosi di fatto nella "superiore" cultura occidentale, considerata sin dagli anni giovanili come l'unica possibilità di riscatto offerta agli emarginati del terzo mondo. Il "milione di rivolte" ("A million mutinies now", come indica il sottotitolo inglese del volume) con cui Naipaul vuole ridefinire la realtà e l'identità indiane è forse proiezione intensificata di un dissidio interno all'autore; non vi sono comunque dubbi sulla tecnica postmoderna che privilegia la posizione di chi sta ai margini contro la sicurezza di chi conduce il discorso dal centro, operando analisi a tutto campo. Bisogna tuttavia dire che la decisione di muoversi nel disordine apparente del frammento o nella dispersione dei significati richiama l'eredità equivoca del viaggiatore orientalista o dell'indagine etnografica ottocentesca, che vede nell'eterogeneità il carattere specifico dell'India.
I saggi di critica letteraria raccolti da Rushdie nel volume "Imaginary Homelands" ("Patrie immaginarie") testimoniano di una diversa reazione ai problemi di sradicamento e di cultura doppia (o divisa) che colpiscono di norma l'emigrato, esposto, come osserva lo scrittore, a una lingua, a una cultura, a dei comportamenti sociali che gli sono alieni. Per Rushdie la questione della propria identità (di musulmano indiano diventato pakistano e poi inglese) sembra soprattutto porsi sotto il profilo squisitamente professionale dell'appartenenza a una categoria piuttosto che a un'altra di scrittori: autore postcoloniale oppure della nuova generazione britannica? Rushdie risolve il dilemma (che tanto tormenta Naipaul) dichiarandosi scrittore "metropolitano", nato non nel terzo, o secondo, mondo, ma nella colta Bombay, la cui vita non è molto diversa, a suo giudizio, da quella che si svolge a Londra. L'evidente civetteria dell'affermazione non deve farci perdere di vista il nucleo centrale del discorso: ovvero il rifiuto della marginalità come inevitabile residuo storico dei rapporti tra la propria origine indiana e il mondo "moderno" dell'occidente. Alla tormentata memoria biografica di un Naipaul Rushdie contrappone una possibilità di sintesi stilistica autonoma e originale: riscrivere il proprio bagaglio "etnico" di storie nei modi di una narrazione occidentale della memoria. Nei due saggi che aprono il volume Rushdie dichiara come "The Midnight Children* sia un libro proustiano della memoria, con in più tutte le distorsioni provocate dalla distanza e dal tempo. La sua teoria delle sincronie inesatte, degli specchi infranti rende conto dei passaggi da una cultura all'altra, di quel 'bearing across' (o attraversamento) che per l'autore è fenomeno comune alla letteratura e all'emigrazione.
La critica accademica indiana contemporanea vede in Rushdie l'esponente massimo di un "realismo magico" non diverso da quello sudamericano o africano; nel saggio dedicato a M rquez, nella decima sezione del volume, lo scrittore definisce il realismo magico frutto di "società formate a mezzo", nelle quali manca ogni possibilità di mediazione tra il vecchio e il nuovo. Appare chiaro che a Rushdie non mancano invece gli strumenti adeguati per compiere "l'attraversamento" da una cultura all'altra. La sua è una narrativa di sintesi, in quanto tale distinta da quella di Naipaul (che si aggira attorno al problema dell'assimilazione imperfetta o impossibile) o da quella, diciamo, degli africani, le cui voci narrative recuperano radici etniche e modi fortemente idiomatici di difficile diffusione o ripresa all'esterno.
La lettura di "Patrie immaginarie" offre al lettore italiano alcuni interessanti criteri di valutazione in questo senso: i famigerati "Versi satanici" sono forse strutturati, almeno nei primi capitoli, come un film musicale della scuola cinematografica di Bombay, senza dover andare a cercare fonti lontane nel tempo, quali la narrazione islamica medievale o addirittura il Corano. L'immaginario narrativo di Rushdie attinge dunque a una dimensione moderna e di massa, di natura metropolitana e non straniata in un universo d'individualità senza tempo, com'è l'India di Naipaul.
L'impossibilità di superare la memoria del passato costituisce il nucleo dell'ultimo romanzo di Anita Desai, "Notte e nebbia a Bombay". L'autrice (di origini tedesche e bengalesi) traccia sullo sfondo di una piccola odissea indiana la cronaca tragica e dolente di un esilio che ha nell'Olocausto il suo cuore innominabile, e non nominato, di tenebra. Più che riguardare l'India, la vicenda tratta forse dell'orrore che assorbe la cultura tedesca, costringendo il protagonista a lacerarsi da sé, dal suo piccolo mondo tradizionale.
Considerato sotto questa angolatura, il romanzo ha un taglio decadente tipicamente mitteleuropeo, di disfacimento morboso e progressivo dell'identità psichica (si pensi all'"Angelo azzurro", forse evocato in modo grottesco dalla scalcagnata coppia di vamp, Lola e Lily), di corrosione fisiologica e morale delle identità. L'India appare sullo sfondo come un paese estraneo, visto con gli occhi sbiaditi di un orientalismo filmico e letterario di maniera: non può mancare Shanghai Lily, n‚ ci è risparmiata la citazione raccapricciante e morbosa sui riti proibiti (e ipotetici) del cannibalismo tantrico o sulla promiscuità sessuale tra sani e malati in una colonia di lebbrosi, situata in una discarica della spazzatura.
E il paese visto dal di fuori, come una terra misteriosa e ostile in cui il visitatore (o il residente) occidentale non può fare altro che smarrirsi e distruggersi. Le immagini costanti di desolazione (tratte da una rappresentazione stereotipa dell'India) riflettono con forte intensificazione il senso perenne di sradicamento provato dal protagonista, il fatto di essere stato strappato alla sua Germania prima ancora di aver potuto maturare. Per il personaggio l'India è una realtà incidentale (come su un piano diverso gli è estranea la condizione di ebreo), rifiutata del resto a priori prima ancora di partire. Forse tanta melanconica solitudine è solo salvata da storie di esile amicizia: tra l'esule e i gatti randagi accolti in casa, con la patetica compatriota Lotte e con pochi indiani, come il trasandato proprietario dello scalcinato Café de Paris o il commerciante di legnami, quasi una proiezione della perduta figura paterna. Del resto, in "Patrie immaginarie" Rushdie ci ricorda (recensendo "In custodia", il precedente romanzo della Desai) di come l'amicizia sia l'unica forza che per la scrittrice riesca ad attenuare, se non a cancellare, squallore e delusioni, sconfitte e mediocrità. È di certo questa l'unica tenue luce che brilla in un romanzo altrimenti disperato e tremendo, nel quale l'olocausto diventa simbolo celato e distruttore di ogni percorso di emigrazione. Brevemente introdotto da Paola Splendore (che definisce le possibili motivazioni biografiche della Desai) il romanzo è presentato in un'edizione italiana piacevole e corretta anche se la cura del testo sembra tradire un minimo di fretta: la traduzione avrebbe potuto essere resa più scorrevole in qualche punto, tutte le cantilene in lingua tedesca avrebbero potuto essere tradotte, e 'dhoti' (l'indumento maschile tradizionale indiano) non avrebbe dovuto avere metamorfosi al femminile.
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