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Erano bambini ebrei gia' orfani perche' i genitori erano gia' stati deportati nei centro di sterminio e i tedeschi li definivano terroristi da annientare. Sono stati deportati ad Auschwitz stipati nei carri bestiame, sono stati scaraventati giu' dai vagoni all'arrivo in Lager, erano terrorizzati e piangevano erano solo dei bambini. Erano duecento piccoli orfani e furono tutti spediti lo stesso giorno in gas, non perche' fosse evitata loro la sofferenza del Lager, bensi' perche' i bambini non servivano come forza lavoro ma solo come concime per campi, ecco la magnanimita' tedesca. Una carezza e un grosso bacio a tutti questi piccoli ducento innocenti.
Recensioni
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Chi si cimenta nella memorialistica della deportazione sa che ci troviamo dinanzi agli ultimi bagliori di un crepuscolo. Non a caso la quantità di testimonianze consegnate alla carta, ma anche ad altre forme di comunicazione pubblica, sono visibilmente cresciute negli ultimi venti anni. Con risultati diseguali, a onore del vero, ma concorrendo a creare un vero e proprio genere letterario, fondato sulla "testimonialità". Un trend che in parte si interseca con una diffusa domanda da parte del pubblico europeo e americano, ma che si alimenta soprattutto della scomparsa degli ultimi protagonisti di quella storia. All'inevitabile declino anagrafico e al transito intergenerazionale si accompagna il bisogno di consegnare alla memoria frammenti delle proprie esperienze, spesso facendo forza contro legittimi pudori personali, superati solo dalla coscienza che il tempo per narrare è oramai agli sgoccioli. La parole ferisce, ma anche sana, come ci spiega la stessa Denise Holstein, ebrea francese che, tra il 1943 e il 1945, conobbe i campi di Drancy, di Auschwitz e di Bergen-Belsen. Quel che più conta della sua testimonianza, ora anche in italiano, è l'evidente sforzo che la connota nel tentativo di verbalizzare, a beneficio altrui, quel che altrimenti non potrebbe che rimanere nel silenzio dell'eternità. Non a caso le parole per dirlo sono quelle che più le occorrono e che ancor più le difettano. Nella feroce e irrisolta dialettica tra dicibile e indicibile, quindi, sta il senso di ciò che l'"era del testimone" consegna a noi che di quelle cose sappiamo solo per averle ascoltate.
Claudio Vercelli
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