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Anno edizione: 2019
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Anno edizione: 2019
Non è vero che non siamo stati felici è una lunga lettera − disperata, folle, sorprendente, magica − a una madre mai morta. Perché, si potrebbe dire, una mamma non muore mai: non è certo il destino, con i suoi scherzi puerili, a farci diventare orfani.
«Un singolare racconto epistolare, denso di riferimenti autobiografici» – Il Venerdì
«Una lunga e appassionata lettera alla madre che non c'è più» – Robinson
Si smette di essere figli quando si intraprende la carriera del genitore. Eppure mai come in quel momento si ha bisogno della mamma: per sapere come si fa a diventarlo a propria volta, o forse più semplicemente per non sentirsi troppo soli. E se la mamma non c’è più perché la morte ha tolto la sua carta dal mazzo, sfilarsi dall’infanzia per crescere tre bambini diventa un’avventura. Ambientato tra la Versilia degli anni Ottanta e Novanta, Cracovia e Berlino, Non è vero che non siamo stati felici racconta, con rara incandescenza emotiva ma anche con divertita poesia, uno scombinato apprendistato. Quello che la protagonista mette in scena è una sorta di piccolo circo che si sposta per l’Europa: ha due cani (due bracchi ungheresi) e tre bambini, chiamati Gauguin, Scoiattola e Caravaggio. Non c’è cartellone, ogni sera s’improvvisa. A lei − che si rivolge per scritto alla madre, non potendole parlare − tocca il compito di scegliere il luogo e montare il tendone. Soprattutto, le tocca il numero di magia più spericolato: convincere i bimbi che il mondo sia un bel posto, a dispetto della nostalgia che le tormenta il cuore. Heimat, dicono i tedeschi, è il posto da cui si proviene e a cui si apparterrà per sempre. È quello il luogo che, viaggiando di stato in stato e di lingua in lingua, la piccola comunità di questo romanzo ha messo come nord alla sua bussola. Per poi rendersi conto, banalmente, che non è la geografia a dare la risposta. Heimat è la mamma: non c’è altra provenienza originaria, e dunque non c’è altra possibile destinazione.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Non gradisco molto la narrativa introspettiva, ma riesco ad estraniarmi di fronte al poco gradire un argomento e a concentrarmi su metodo e merito di uno scritto. Entrambi spiegano, nel caso del libro, il perché abbia ricevuto un premio Opera Prima. E' una prosa serrata che resta corretta nonostante la sua impetuosità, anche quando diventa confidenziale con il lettore. Ogni rigo propone un concetto diverso: momenti, episodi, oggetti relativi al periodo che Irene prende in considerazione balzano dal racconto come reali, naturali. Appare il travaglio interiore che la morte della madre ha comportato a lungo ed è reso visibile da una descrizione nuda dello sconcerto e della sofferenza che ne seguirono. Un ulteriore pregio dello scritto è la chiarezza 'nonostante'. Voglio dire che quando un elemento della memoria su cui cada lo sguardo dà origine a un vortice di pensieri, non è facile tradurre il tutto in parole scritte tenendo per mano chi legga senza che lui si perda. Nel libro non ci perdiamo, ma accompagnamo Irene nella ricerca della sua ... eirène (pace, in greco). Ho inviato a Ibs questa recensione in data 24 sett. Ho avuto conferma, ma la recensione non appare a tutt'oggi 30 sett. Forse perché avevo messo in nickname il mio indirizzo e-mail.
Non conosco (o forse non ricordo) il nome della protagonista del racconto, dunque la chiamerò Irene. È con una lunga lettera alla madre, alla quale racconta gli ultimi 15 anni della sua vita, che Irene ci trascina, letteralmente, sott’acqua – in apnea, come sempre ripete – in uno slalom senza fiato tra dolori e cadute, tra tempeste e schiarite, tra uomini scarafaggio e principi schivati per disabitudine alla felicità. È un unico intenso racconto, senza soste, senza pause. Ogni capitolo comincia senza la maiuscola, a dare il senso della continuità col precedente, e si conclude senza un punto, perché l’apnea continua col successivo. E lo scenario è sempre quello: in groppa alla protagonista percorriamo quella strada impervia, quella immersione totale in un mondo –“di dentro e di fuori”- che non sa arginare, e che l’ha invasa e spesso atterrata. Leggere questo lungo racconto non è per tutti, bisogna essere disposti ad una incursione nei sentieri più profondi e bui dell’anima, nei posti dolorosi da cui di soliito preferiamo allontanarci, salvo che non dobbiamo affrontarli per forza quando si sono fatti giganteschi e stanno per soffocarci con il loro peso sul cuore. Irene vuole recuperare il tempo che non c’è più, riempire le pagine bianche delle agende della mamma che la malattia le ha portato via, trovare le chiavi della sua vita e raggiungere la Heimat, la casa, il posto dove ci si sente a casa, le proprie radici e la chioma che sarà. È la luce in fondo al tunnel. Irene vi si muoverà sempre in apnea, fino a quando non riuscirà a riconciliarsi con l’assenza della madre (“se torni, mamma, vedrai….”), con la propria fragilità, e a conquistare un silenzio finalmente non minaccioso. I tre figli di Irene la accompagnano in un viaggio in cui sono sia viaggiatori che guide. Sono figure forti, frutti preziosi degli errori di Irene e del suo amore per la lettura e per le lingue. Sono folletti che le indicano la strada e aspettano pazienti che la madre la trovi.
Se volete leggere un bel libro, leggete questo. Come intreccio, ritmo ed in parte come schema narrativo mi ha ricordato quella meraviglia di "Lettera da una sconosciuta" di Stefen Zweig. E' la narrazione di una mancanza, di una assenza. Una narrazione forte, pregnante, vitale, che sebbene scaturita da una morte potrebbe essere anche originata da altro. Da una assenza interiore, per esempio, invadente la vita quotidiana. Un po' realtà, un po' sogno, un po' avventura, un po' piacere del vivere, un po' dramma e un po' ironia. La prosa è veramente azzeccata, leggera e profonda allo stesso momento. Acculturata e divertente. E' un libro soprattutto intelligente, oltre che appassionato e tragico. Ma non mancano i sorrisi. Sono dunque ore ben spese quelle passate a leggere il racconto di questa donna che cerca disperatamente di vivere (o almeno di sopravvivere) a se stessa e alle avversità in un mondo a cui sembra essere estranea. Suoi alleati in questa lotta sono i tre figli dai nomi fantastici, due cani, molti sogni, le ciabatte, tanta fatica e soprattutto tanta riflessione nel ricordo di una madre che non c'è più. L'autrice, alla domanda se è un libro autobiografico, ha risposto di si. Dal che si deduce che Irene Salvatori è una donna sorprendente e affascinate, nonostante lei si percepisca come una “acciuga senza lisca”. Una lettura praticamente perfetta. Soprattutto trattandosi di una opera prima.
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