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Gli esperimenti letterari si fanno nel sottobosco. Proprio in quelle nicchie, esuli poeti e scrittori si chiudono nella propria solitudine e danno vita al caos. Molto probabilmente nessuno li cercherà, anzi, sono convinto che a loro della notorietà non importi un fico secco. Non scriverebbero così, infatti, ma comporrebbero parole mainstream per un pubblico accomodante, per critici da quarte di copertina ed editori politicamente corretti.
Massimo Angiolani, invece, di tutto questo se ne infischia e in 157 pagine di pura rabbia racconta l’esperienza di un cattivo, Diego Diavolani. Pusillanime, odioso, disadattato, scansafatiche e all’occorrenza ubriacone e drogato. Si aggira per Ancona e dintorni. Cerca se stesso rovinandosi, degradandosi. Diavolani delle buone maniere non sa che farsene, non sa usare parole dolci e il suo lamento è un’ironica sfaccettatura della vita. Vuole fare lo scrittore ma ha paura del mondo. Vuole inventare nuove teorie economiche e fondare una scuola di pensiero, ma qualcosa lo blocca. Aspira al Nobel anche se è solo un barista, un parcheggiatore, un obiettore di coscienza.
Leggendo questa recensione qualcuno potrebbe dire, Suvvia dov’è la novità, queste cose le hanno già scritte Bukowski, Burroughs, Céline? E allora scendo in campo io e do a Cesare ciò che è di Cesare. Ci provo.
Angiolani non è uno scrittore maledetto e nemmeno aspira ad esserlo. Mette a nudo un’anima. Il suo libro è una limpida denuncia della contemporaneità. Diavolani è come il protagonista de Lo Straniero di Camus, vive senza sapere a quale mondo appartiene. Nella perpetua ricerca di una dimensione che lo faccia sentire a casa, quest’uomo senza virtù accetta con mitezza il proprio destino. La confusione e il disordine sono le sue caratteristiche. Diavolani insomma non è altro che un uomo entropico.
La reazione del protagonista è la sottomissione, proprio come ce l’ha raccontata Houellebecq nel suo ultimo romanzo. Ma teniamo in considerazione che questo libro è uscito qualche mese prima dell’opera dello scrittore francese. La sottomissione di cui ci parla Angiolani non è al sistema, ma ai propri vizi. L’effetto è terapeutico perché porta all’incontro con le proprie virtù. Ma quando si attraversano i propri lati oscuri si deve usare il linguaggio della violenza, della crudeltà e della cattiveria. Non ci può essere dolcezza in un mondo di merda. Capite cosa dico?
Ma voglio anche tranquillizzarvi su un aspetto, il protagonista non ordisce omicidi, rapine o altro. Tutto questo marcio lo rivolge contro se stesso. Insomma, in questo libro di nicchia troverete una letteratura vera, senza artifici. Parole che graffiano, frasi che pugnalano. Ma solo leggendolo potrete capire che lo stile di Angiolani è personale e che Bukowski, Burroughs e Céline, sono solo stati i suoi maestri.
Buona lettura.
Recensione di Martino Ciano
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