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recensione di Nadotti, A., L'Indice 1989, n. 4
"Non ho più paura delle casse da morto ma detesto sempre le valige". Con questa frase, quasi un'epigrafe, si apre il diario di Sirkku Talja, autrice finlandese alla sua prima prova narrativa. Diario scarno e dolente di dieci anni della sua vita dai quattro ai quattordici.
Nella Finlandia degli anni che precedono e accompagnano il secondo conflitto mondiale Sirkku attraversa le stagioni dell'infanzia e della prima adolescenza con una consapevolezza disperata, quella di un abbandono inspiegabile, di un vuoto che non potrà comunque essere colmato. Al centro dei suoi pensieri e dei suoi desideri la madre che ha deciso di abbandonare lei e il fratellino interrompendo una quotidianità modestissima ai limiti della sopravvivenza e tuttavia rassicurante, protettiva. Commerciante di bare in un piccolo villaggio di quella lontana regione d'Europa ai confini con la grande pianura russa, la madre di Sirkku è una donna di calorosa vitalità. I due bambini sono abituati a dormire tra le casse da morto che costituiscono l'unico arredo della loro piccolissima casa, assistono talvolta alle scene di pianto di chi viene a ordinare una bara e Sirkku dorme sonni inquieti quando il morto è un bambino ma la presenza della madre la tranquillizza sempre.
Ma a questo universo infantile vengono sottratte all'improvviso le pur fragili fondamenta. La madre decide infatti di portare i figli all'orfanotrofio "un posto dove i bambini stanno bene, puliti e al caldo", fa le valige e senza dir loro una parola di spiegazione un giorno chiama un taxi e li accompagna al grande edificio sulla collina dove li lascerà per sempre.
Sirkku attende ogni giorno una lettera, una frase, un segno che le restituiscano sua madre, attende con una docilità assoluta, con una sopportazione silenziosa come forse è possibile soltanto nell'infanzia. Alla fine del diario e della sua prigionia Sirkku scrive alla madre una lettera che non ha mai spedito: Ti ho aspettata per dieci lunghi anni, ho pensato a te tutti i giorni salvo due". Nel tono della frase, nella scelta delle parole, sembra quasi che voglia giustificare la madre come se il lungo oblio e la minuscola dimenticanza fossero in qualche modo paragonabili e rendessero plausibile una punizione.
Curiosamente la bambina abbandonata che si riempiva di spavento alla sola vista di una valigia, l'adolescente goffa e maldestra su gambe troppo lunghe e sottili, è diventata un'indossatrice famosa e ha condotto una vita movimentata in paesi stranieri fino a quando ha sentito il bisogno di scrivere di quella lontana frattura e ha trovato per raccontarla, un sorprendente registro narrativo. La traduzione della Ginzburg ce ne restituisce intatto l'andamento doloroso quasi indolenzito come se risentisse ancora del freddo reale e di quello interiore. Nell'infanzia il desiderio di andare a scuola, di comunicare e conoscere, aveva liberato miracolosamente la parola. Qui la memoria dell'autrice si scioglie in una scrittura fatta di brevi frasi concise, constatazioni inequivocabili, acutissimi e crudeli perché, ritratti precisi di persone e di luoghi intorno al sogno di una madre amatissima e assente. Recentemente è uscito in Francia il secondo libro di Sirkku Talja "Le vernis noir", continuazione dell'autobiografia dell'autrice.
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