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Ero completamente digiuna di letteratura australiana, contemporanea e non. Così venne il tempo di farne un assaggio e vedere se qualcosa di particolare, di diverso potesse arrivarmi da un viaggio letterario agli antipodi. Non ho trovato canguri, aborigeni e nemmeno una gitarella nell'Outback, Ayers Rock inclusa, e bene così, perché a portarmi proficuamente negli stereotipi ci avevano già pensato bene Marlo Morgan e Bill Bryson. Più che la geografia, cercavo una 'storia' tutta australiana. Scrittura enfatica, proteica, incalzante, pulsante come una cefalea spaccameningi e un po' spaccona. Ottimo il ritmo, e un bell'esordio da 'hangover'; persistente ma efficace: si sente proprio la puzza da sbornia e deriva. Laptop a parte, è un romanzo beat americano anni '70/'80, quindi, e allora posso dire che la missione è fallita, nel senso della mia ricerca e curiosità di trovare qualcosa di non assimilato e omogeneizzato alla cultura occidentale da cui gli australiani bianchi discendono: una forte personalità propria come risultante dall'incontro e fusione di molteplicità. Mi sa tanto, invece, che è stato assimilato tutto, ma proprio tutto "Il cielo, la terra e quel che sta nel mezzo", per citare la stessa Marlo Morgan. Ma ora sono nei guai perché si è sollevata la questione che ingenuamente e banalmente mi pongo solo ora: qual è, se esiste, l'identità degli australiani? È chiaro che brancolo nel buio qui, e che questa non è la sede per una mia disquisizione a questo libro uno stimolo forte me l'ha senz'altro dato, assieme al prezioso fatto che io e Winton, anche se agli antipodi geografici, apparteniamo alla stessa generazione e parliamo la stessa lingua: insomma, noi due ci siamo intesi.
Chissà perché, pensavo meglio! Mi ero creata delle aspettative su questo libro, invece l'ho trovato un po' piatto. Molto scorrevole, comunque; peccato per la trama, forse mi aspettavo qualche colpo di scena in più...
In due parole: leggerlo è stato come vedere un bel film.
Recensioni
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Tutto ha inizio con una macchia sospetta sul tappeto. È così che si sveglia una mattina Tom Keely, ex ecologista stimato e incorruttibile, caduto in disgrazia per una brutta storia di diffamazione. Ora è spiantato, separato dalla moglie, alcolizzato, sotto psicofarmaci, e si è rintanato all’ultimo piano del Mirador, un grattacielo deprimente che accoglie gli scarti inservibili della società, nel caso specifico di quella australiana: spietata nella sua mitologia progressista di sanità ed efficienza prestazionale. Tom comincia a interrogarsi su chi o cosa (un intruso? Un attacco di sonnambulismo? Una pisciata da ubriaco rimossa?) possa aver provocato la macchia sul tappeto, costretto a un minimo esercizio di autocoscienza dopo giornate di annebbiamento alcolico e chimico. Ma prima che la macchia si trasformi in una metafora fin troppo facile su un’esistenza fuori controllo, e che i deliri investigativi di Tom possano scivolare verso un irritante compiacimento bukowskiano, la storia si apre verso un incontro imprevisto – come sono spesso gli incontri nei romanzi – anche se si tratta soltanto di due vicini di casa: Gemma e suo nipote Kai (non immaginatevi una nonnina, perché Gemma è una donna di appena 45 anni, provata dalla vita, ma piena di risorse e di conturbante erotismo).
A voler riassumere la trama de Il nido – un romanzo che sa calibrare perfettamente melodramma e ironia – potrebbero venire in mente molte storie simili: un uomo disilluso e allo sbando incontra una donna scombinatissima madre di un bambino e, grazie a loro, l’uomo riscopre il senso della vita. Ma è proprio la capacità di rimettere in gioco una storia archetipica che rende Il nido un romanzo appassionante, che monta pian piano, lasciando al lettore la voglia di affezionarsi ai suoi personaggi esattamente nello stesso modo in cui, nella realtà, si appassionerebbe all’esistenza di qualcun altro. Gemma appartiene al lontano passato di Tom: da bambina – un angioletto fragile e biondo – era vissuta a casa dei Keely. Perchè i Keely erano fatti così: caritatevoli e generosi, felici di accogliere le pecorelle smarrite di famiglie disfunzionali, disposti a martirizzarsi per rendere il mondo un posto migliore ed emendarlo dal male. Uno spirito che Tom stesso ha introiettato fino a pagarne le conseguenze: distruggere una carriera da ecologista per un eccesso di purezza morale. È questo uno dei nuclei fondamentali de Il nido: qual è il confine tra la buona fede e il narcisismo delle buone intenzioni? Tra l’altruismo e l’esaltante ebbrezza di sentirsi dalla parte del giusto? Se l’età adulta porta l’inevitabile conseguenza di adattarsi ai compromessi, Tom sembra aver optato per la via della regressione, un infantilismo misantropo da cui osservare l’ipocrisia di una società pronta a scendere in piazza per una pecora, ma insensibile alla morte per asfissia di un aborigeno (e violentemente refrattaria a contemplare la possibilità di fallire e auto-declassarsi come scelta individuale). Nel momento in cui Tom decide di aiutare Gemma (un’altra reietta della società), deve fare i conti con domande che fino ad allora non si mai era posto: perchè lo sta facendo? Per Indole? Per noia? Per solitudine? Per senso di giustizia? Per senso di colpa? Perchè è innamorato? Perchè vorrebbe scoparsela?
Per Kai, che vede come Il figlio che sua moglie gli ha negato? O più probabilmente per tutte queste ragioni insieme, conflittuali e ambigue, e proprio per questo più galvanizzanti della semplice coercizione a fare il bene? L’incontro con Gemma mette in crisi i principi morali con cui Tom è cresciuto, incarnati dalla figura di gigante buono di suo padre, e ancora rivendicati da sua madre e sua sorella, entrambe capaci di trasformare la lotta per le giuste cause in un carrierismo di successo (lo stesso che Tom ha mandato a puttane), e che non a caso intravedono nel disperato vitalismo di Gemma, nella sua volubilità e nella sua ansia di rivalsa, una fonte tossica di anarchia difficilmente addomesticabile (al contrario di quando era bambina, ovvero soltanto una creatura fragile e ferita).
Il nido ricorda un film bellissimo di qualche anno fa, Another Year, di Mike Leigh, che rivelava l’insita ferocia di una famiglia perfetta, eticamente irreprensibile, ecologista, generosa e disposta ad aiutare il prossimo; solo a patto che il prossimo non abbia troppi grilli per la testa. Nel romanzo di Winton, Tom imparerà ad amare quei grilli, o meglio, scoprirà che sono la parte più vera dell’essere umano.
Voto 4/5
Recensione di Veronica Raimo
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