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Meraviglioso. Temi centrali del romando come la colpa, l'angoscia, l'amore, il sesso e l'intrigo della vita sono raccontati magistralmente in questo romanzo strepitoso. Super Consigliato!!!!
Recensioni
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recensione di Coletti, V., L'Indice 1998, n. 7
Per un lettore di madrelingua inglese o spagnola è un'esperienza ben nota: leggere un testo scritto nella propria lingua ma concepito sotto costellazioni culturali e perfino nazionali completamente estranee o comunque molto diverse. Per un lettore italiano il caso è certamente più raro, e l'incontro col libro di Giorgio Pressburger è, anche per questo, un'occasione singolare e interessante. Per la verità, capita di tanto in tanto di leggere libri italiani che sembrano tradotti da altre lingue, che sono tributari di suggestioni culturali non nostrane, fruitori di motivi, luoghi, temi mutuati da altre letterature. A volte, sono prodotti eccellenti (come lo furono certi romanzi svizzeri di Morselli); altre volte lasciano l'impressione dell'artificio, del progetto a freddo, del calcolo sapiente ma gratuito. I racconti di Pressburger, per parte loro, compongono davvero - come del resto fanno le migliori tra le sue opere precedenti, "Le storie dell'ottavo distretto" (Marietti, 1986) e "L'elefante verde" (Marietti, 1988), scritte in collaborazione col gemello Nicola, morto da qualche anno - un libro non italiano steso nella nostra lingua (e questo anche più e meglio degli altri, come dimostrano una cresciuta padronanza della sintassi e una maggiore omogeneità di stile).
La matrice culturale da cui questi racconti nascono è quella ebraica, dell'ebraismo culturale mitteleuropeo, non rivissuto solo attraverso libri e cinema, ma sperimentato anche in proprio e coltivato direttamente per nascita, formazione, vicende biografiche e intellettuali dell'autore. La colpa e il male sono allora, e senza alcuna affettazione, i grandi temi che percorrono queste pagine e si concretizzano in limpide storie-apologo alla maniera ebraica "classica" e in racconti cupi e agghiaccianti, che immettono nel buio di un mondo perduto e insensato.
Al primo filone appartengono il racconto che dà il titolo al volume, storia della scomparsa sul Gran Sasso di un saggio ebreo e della inutile e pia ricerca del suo corpo da parte di un compagno di escursione, che fino all'ultimo aveva cercato, conversando con lui, immagini e ragioni che legassero la neve e la colpa, il candore della natura e la macchia del peccato originale; "I due angeli", che narra di un'anziana signora e di una bambina dedite liberamente e generosamente al sesso e al conforto degli altri; e, infine, "L'inseguimento", attribuito a Nicola Pressburger e inserito nel libro forse più per ragioni affettive che per il suo reale valore letterario.
Al secondo filone vanno ascritti "Il caso del dottor Fleischmann" e "Messaggio per il secolo", storie di sofferenza totale e di vana domanda di conforto e compassione, ossessione del sesso e bisogno di tenerezza, spregiudicatezza morale e senso di colpa incancellabile. Lo scontro è qui tra delicatezza e orrore del corpo e tra mostri e sogni dell'anima, variamente combinati fra di loro. Prevalgono il dolore e gli incubi, il buio e il male e soprattutto la cieca violenza, reazione distruttiva dell'uomo che si ribella al suo duro destino e lo arma di una ferocia ancora più terribile. Una luce (una bella donna, un gesto d'amore) si può affacciare per un attimo, ma poi tutto ripiomba nell'oscurità malvagia e nella necessità impietosa. Lo mostra, con una rivoltante (ma impeccabile) descrizione delle ferite e dell'agonia di un gattino, il racconto "Vittima e assassino", che mescola definitivamente gli opposti, Caino e Abele, pietà e perversione, amore e odio, per comporre una specie di parabola del Novecento, secolo segnato dal male, irrimediabilmente imbrattato e attratto dai suoi orrori, offeso e sedotto dai demoni scoperti e scatenati dal profondo dell'uomo.
L'impronta ebraica, si sa, ha segnato tutta la grande letteratura novecentesca e ha dettato a essa i suoi tormenti e le sue ossessioni. Con Pressburger la cultura italiana torna ad affrontarli con l'immediatezza e la drammaticità che solo l'identità religiosa ed etnica o perlomeno la prossimità biografica sembrano consentire (i non ebrei, come Caproni ad esempio, debbono arrivarci per vie molto più ardue e contorte). Si riaffaccia così, nella nostra lingua, la grande meditazione che aveva alimentato i racconti di Primo Levi, si rivitalizzano in un'opera narrativa motivazioni che da noi sembravano rintracciabili ormai solo nei saggi di Claudio Magris o di Paolo Debenedetti.
Certo, questi ascendenti dimostrano che, se l'ebraismo letterario di Pressburger ripropone il grande, il migliore Novecento, il suo libro, pur uscito alla fine del secolo, sta ancora tutto dentro di esso. Osservazione che non costituisce un giudizio svalutativo, ma che è inevitabile fare se si pensa che, da qualche anno, una nuova stagione letteraria è ormai cominciata e proprio, ancora, grazie alla cultura ebraica; questa volta però non centroeuropea, ma israeliana, come quella che ci giunge dai grandi romanzi di Abraham Yehoshua, forse i primi capolavori narrativi del Duemila. Va detto per altro che, se sono ancora tutti del secolo che finisce, i racconti di "La neve e la colpa" concludono più che degnamente, in Italia, l'età culturale di cui sono l'estrema espressione.
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