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Nel panorama desolante della letteratura italiana appare finalmente un tentativo riuscito di arte letteraria.L'autore riesce a trasformare in poesia la sostanziale minimalità dell'ego (il personaggio IO del romanzo) inteso come essere pensante che si relaziona con l'umanità. Tutto ciò che è male nell'essere umano viene recepito e riflesso in un fluire della visione che è propria della mente umana. L'apparente egocentrismo della narrazione risulta essere un eccellente espediente per rendere il messaggio(o meglio la continua domanda)cosmopolita. Noi tutti siamo IO ed in questo significato riflesso del romanzo l'autore è stato semplicemente geniale.
L’inchiesta sulla poesia del «verri» (1, 1976) affianca un frammento di lettera di Rosselli e la ricetta di Sanguineti su Come far versi. Da un lato una dichiarazione di debolezza e impotenza («…in questi ultimi sette anni, io ho finto di occuparmi di poesia, ma ho avuto grane tali da distogliermi da ogni mio proprio entusiasmo creativo. Al massimo posso dire che studio»); dall’altro la facilità, fino al metodo («per preparare una poesia, si prende un “piccolo fatto vero”»). Su un piano si soffre, sull’altro ci si organizza per un futuro che trasforma il metodo in oggetto della poesia, e quindi la poesia in metodo. In un caso la poesia è sangue, nell’altro coincide con la professionalità del politico, che non può permettersi di morire, e ironizza sulla vita. Che obbedisce ad una volontà ostinata di rifiutare ogni sangue e qualsiasi forma – anche la più anarchica, anche la meno romantica – di ispirazione e di disgrazia. In Rosselli il peccato del sangue sregolato si unisce a quello di un’incredibile perfezione rispetto alla media italiana. Leggiamo la poesia di una genialità impersonale e assolutamente non-italiana, sia per il secolo altro a cui si rivolge sia per la torsione della lingua della Patria. Qui la Patria – parola violata da troppa retorica – non esiste, e la «santità dei santi padri», «cangianti» e compiacenti all’Olocausto, è uno scandalo che porta fuori dall’Occidente «ove niente per ora cresce». Lo spazio metrico rigoroso, scandito dalla macchina da scrivere, è come un Lager delle parole, anche deboli e monosillabiche, da cui dovrà emergere una poesia – e non una prosa – del paradosso e della libertà. Si parte sempre da un corpo, che ha alle spalle una storia («nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione fallace»), e la storia è malata quanto la mente. La mente è malata quanto la storia: su questo assunto si basa, oggi, il romanzo d’esordio di Gianluca Gigliozzi, Neuropa.
In Neuropa appaiono più volte la noia e lo sbadiglio. Ci si annoia di fronte ad un gioco già conosciuto o a dottrine che non ci riguardano, mentre tutto si riduce ad una vita rinchiusa che sogna o a una vita sociale che agisce (a partire dai lombi, creando gli ALTRI). Ci si annoia, soprattutto, di fronte ad uno spettacolo mal riuscito: il sintagma barocco teatro del mondo e la frase-mito la vida es sueño non contemplano, di per sé, la possibilità che il teatro sia noioso e il sogno un incubo. Ma il teatro, in cui si finge di “essere altri IO”, è la sala anatomica per eccellenza: “come avere tanti corpi morti in cui frugare a caccia dell’ESSERE – forse non è una cattiva idea”. Le ultime due pagine sono un lungo elenco di persone ringraziate per la loro amicizia e i loro consigli, durante la “gestazione” e l’iter editoriale. Tra queste persone ci sono veramente le migliori menti nate dopo il 1950: Giuliano Mesa (“a cui il libro è dedicato”, e Mesa è l’autore di un’opera sui loro scritti), Luigi Severi, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Biagio Cepollaro, insieme a molti altri. Si tratta, in particolare, dei poeti che ultimamente sono entrati – ma l’esclusione di Cepollaro pesa come una ferita, e ferisce un’opera di grande valore – nell’antologia Parola plurale di Sossella, nello stesso 2005. Le menti amiche sono gli ALTRI e sono l’ESSERE, in un certo senso: l’IO dello scrittore vi ritrova una comunità di other minds, e finalmente non è solo oggetto inconsapevole di una regia esterna, dalla quale è guardato. Tra questi amici trova occhi da guardare. Né sono corpi da sezionare alla ricerca di qualcosa: essi gli mostrano sùbito ciò che sono, come uomini e come intellettuali. Perché accada qualcosa, Sade deve morire e il suo stesso corpo diventare cenere. La cenere non è né un IO né un corpo: fu entrambi. L’ESSERE maiuscolo, che è personaggio neuropeo al pari dell’IO maiuscolo che sarà Jacques (minuscolo), apre la possibilità di una lettura teologica del romanzo, come forse lo stesso Gigliozzi auspica.
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