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recensione di Mancia, M., L'Indice 1997, n. 6
A dominare fin dall'inizio questo libro è il concetto forte di "campo analitico", definito come il tipo di incontro affettivo tra paziente e analista che, prendendo forma, "diviene lo spazio-tempo di intense turbolenze emotive, di vortici di elementi á, che urgendo e attivando le funzioni a iniziano a essere trasformati in elementi a cioè - prevalentemente - in 'immagini visive'". Appare subito evidente, già alle prime battute, l'interesse dell'autore per il pensiero di Bion. È sulla linea bioniana che Ferro infatti introduce il concetto di "segnalatori del campo" intesi come la risultante delle forze emotive del campo che permettono ai protagonisti dell'incontro, di approssimarsi alla verità emotiva (la "O" della coppia) attraverso le loro funzioni mentali e la loro integrazione.
Un altro concetto importante per la prassi analitica trattato dall'autore è quello di "cimentabilità", intesa come consapevolezza dell'analista relativa all'impegno di un'analisi basata sulla propria analisi, sul proprio funzionamento mentale, sul grado di tolleranza al rischio e alla frustrazione. Ne consegue che il concetto di "analizzabilità" è cambiato, sostituito da quello di "idoneità" all'analisi basato sulla capacità del paziente di accettare il setting e la realtà transferale che emerge dall'incontro. Certo molto dipende - per un buon funzionamento della coppia - dalle capacità dell'analista, e non solo dalle sue capacità positive (comprensione, empatia, contenimento, ecc.), ma anche da quelle negative che consistono nel suo essere in grado di restare nel dubbio, di accettare di non capire, pur restando aperto alla narrazione di infinite storie tra cui scegliere "fatti" diversi a seconda della temperatura emotiva di quel fuggevole momento transferale.
Dal "campo", inteso anche "come luogo-spazio promotore, attivatore di storie possibili" e come "topos" dove si incontrano/scontrano le menti del paziente e dell'analista e le loro reciproche difese fino alle identificazioni proiettive incrociate, arriverà la "segnalazione" di fine analisi, garantita da una progressiva introiezione da parte del paziente delle qualità mentali dell'analista. L'efficacia dell'analisi sarà misurata dalle micro e macrotrasformazioni che ha prodotto e dall'acquisizione, da parte del paziente, di autonomia e capacità di essere solo.
Ferro ci fa vedere direttamente quale è il suo modo di lavorare in seduta. I numerosi casi clinici che descrive ci danno uno spaccato dei suoi sentimenti controtransferali, del suo sapere attendere con pazienza, del suo essere in grado di offrire interpretazioni brillanti e a un tempo insature, del suo vivere in quello stato di capacità negativa che lascia aperta la mente a ogni influenza e il campo a ogni possibile trasformazione. Da questo punto di vista credo che Ferro abbia colto molto sapientemente l'insegnamento di Bion: lavorare senza memoria e senza desiderio. Il che non significa che si debba negare ogni metaforico spazio affettivo al paziente, ma piuttosto tenere da parte memoria e desiderio, come caratteristica appunto delle capacità negative, per lasciarsi penetrare e invadere dalle emozioni del paziente e su di esse tentare una costruzione. Che però per essere usabile deve essere plastica e non rigida, come un'"opera aperta" cui il paziente potrà portare contributi nuovi e contraddittori e che potrà completare nel corso della seduta. O che potrà completare a casa, con un sogno e con la sua elaborazione nella seduta successiva.
Questo significa per l'autore lavorare nell'"hic et nunc": quanto il paziente porta, la sua realtà metaforica e simbolica, "dove trovare un accoglimento e una trasformazione narrativa nell'oggi". Ferro distingue, accanto alla realtà esterna e alla realtà interna, una "realtà relazionale". È questo il solo luogo delle trasformazioni, mentre le altre due realtà costituiscono il luogo della conoscenza. L'"insight", veicolo di trasformazioni, si verifica "quando analista e paziente acquisiscono una comprensione comune delle fantasie inconsce in quel momento attive nel campo". Ciò comporta una ristrutturazione del campo e una estensione del pensiero e della comunicazione ad aree che fino a un momento prima erano occupate da "bastioni", cioè aree di resistenza della coppia.
I "bastioni", concetto introdotto dai Baranger, sono prodotti della coppia che tende a creare legami di tipo simbiotico. Il lavoro sui bastioni crea una dialettica tra i componenti della coppia che tende ad avere un andamento a spirale. Ma perché il lavoro a spirale possa compiersi è necessaria la massima "permeabilità" del campo analitico. È grazie a questa permeabilità che fatti realizzati oggi possono "risignificare brandelli di esperienze pregresse". Questo processo è quello da Freud descritto come "Nachträglichkeit", che consiste appunto nell'attribuire a posteriori significati nuovi alle esperienze di un tempo attraverso una ritrascrizione della memoria.
Un concetto forte, mutuato dai Baranger, è quello del gioco incrociato di identificazioni proiettive per cui si stabilisce uno scambio continuo di elementi emotivi tra paziente e analista. Alla base di questo incrocio di identificazioni proiettive ci sarebbe il desiderio che ogni analista condivide con il suo paziente: quello di evitare il dolore mentale quando questo supera una certa soglia. Per elaborare queste situazioni, l'autore suggerisce di "lavorare nella micrometria della seduta". E con un esempio clinico dimostra come sia possibile per l'analista porsi in quell'assetto mentale che permette in lui, prima che nel paziente, il verificarsi di un cambiamento. Quando questo assetto non è raggiunto, possono accumularsi nella relazione delle "microfratture" della comunicazione che possono esplodere come reazioni terapeutiche negative oppure possono promuovere gravi impasses nel processo e stalli nella comunicazione. Altrove ho avuto modo di esprimere il mio parere su questo concetto di identificazione proiettiva incrociata tra paziente e analista. Mi limito qui a qualche riflessione. Lo stesso Ferro precisa che la relazione analitica non è comunque una relazione simmetrica. Personalmente vedrei proprio nell'asimmetria un diverso uso dell'identificazione proiettiva. Per elaborare l'identificazione proiettiva del paziente, infatti, l'analista dovrà porsi in condizioni ricettive ed elaborative piuttosto che proiettive. Sono invece d'accordo con Ferro quando sottolinea che ogni analista deve poter riconoscere la responsabilità intrinseca al suo stile di lavoro e soprattutto al suo stile interpretativo, che deve essere aderente e rispettoso del "testo del paziente".
Come ho già detto, tutto il pensiero dell'autore è permeato dall'insegnamento di Bion. Niente di male in questo, tranne quando l'autore sembra lasciarsi prendere un po' la mano, scrivendo ad esempio, accanto alla bella metafora della sessualità come articolazione tra personaggi che "la sessualità è la 'qualità' e la 'modalità' di incontro dell'elemento á con la funzione a", e che la psicoanalisi ha un interesse specifico per la "sessualità come vertice narrativo". C'è da domandarsi se la sessualità, analiticamente oltre che antropologicamente parlando, non abbia un interesse in sé che trascende la sua narrazione.
D'accordo sull'idea di Bion che "il grosso dramma della specie "Homo sapiens" è il peso della mente, e il fatto che il 'pensare' sia una funzione nuova (la più recente filogeneticamente) della materia vivente", resta il grande peso e l'importanza, per la salute della mente, dei pensieri che, "se pensati conducono alla salute mentale, se non pensati danno origine al disturbo".
Un'attenzione particolare viene data da Ferro ai sogni di controtransfert. Per l'autore "i sogni di controtransfert testimoniano la fatica, il modo e il mezzo con cui la mente dell'analista inizia a trasformare l'aggressività dei pazienti". C'è da domandarsi però se questo sia l'unico modo in cui può avvenire questa elaborazione o se il sogno di controtransfert non venga proprio quando sono fallite le qualità ricettive, elaborative e trasformative dell'analista in seduta.
"Nella stanza d'analisi" contiene una interessante e utile appendice. Essa riguarda il setting inteso come un apparato che crea le regole formali del gioco e che permette operazioni trasformative grazie alla sua elasticità e assorbenza, ponendosi come una protezione per l'analista e per lo stesso paziente. Il setting è anche l'assetto mentale dell'analista che lo rende permeabile agli stati emotivi del suo paziente, ma che va incontro a un continuo disturbo e ristabilimento. Per altro, ogni paziente cerca di non stare al gioco e di rompere le regole, cioè di alterare il setting (e cercare di far uscire lo stesso analista dal setting, cioè di fargli rompere le regole). Ferro dice - giustamente - che queste rotture di setting da parte del paziente hanno una straordinaria ricchezza comunicativa e che l'analista deve saperle cogliere, senza che lui stesso sia indotto ad alterare il suo assetto interno, avendo comunque chiaro in mente "qual è il suo grado di tolleranza alla rottura di setting, perché questo diventa "uno dei suoi criteri di analizzabilità". Resta comunque una necessità: che il setting sia "rigoroso" ma non rigido, che l'analista non contro-agisca ma che si affidi al suo Nord magnetico, che è l'assetto mentale e fisico nella stanza dell'analisi, pur riconoscendo che a volte rotture di setting sono inevitabili nel corso di un'analisi poiché la mente dell'analista può essere modificata da accadimenti reali e fantasmatici, da preoccupazioni, malattie, crisi, stati d'animo che potranno modificare la sua disponibilità nei confronti del paziente.
Ferro conclude il suo lavoro dicendoci bonariamente che tutti possono sbagliare, l'importante, come analista, "è avere la capacità e la pazienza di recuperare quanto è stato disturbante, indigeribile, dannoso per arrivare a nuove possibilità di trasformazione e di pensabilità". Un ottimo e saggio consiglio.
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