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interessante il punto di vista di narrazione scelto dall'autore. Il primo libro letto sulla convivenza bianchi neri in africa scritto dalla parte dei piu' forti. Un libro sul mancato riscatto del popolo africano e sulla mancanza di confine tra il bene e il male. Crudele la scelta di irrisolutezza finale perseguita dall'autore
Recensioni
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Nella letteratura proveniente dall'Africa decolonizzata la violenza è stata per decenni un topos dominante, specialmente se collegata ai conflitti tra bianchi e neri. E continua a esserlo, ma non sempre le vittime sono i neri. Ci vuole tuttavia una buona dose di coraggio per scegliere un tema così scottante, specialmente se si adotta l'ottica delle vittime bianche, come fa Ian Holding con il suo romanzo d'esordio, Nel mondo insensibile, dedicato appunto alle "vittime", non meglio specificate, in cui racconta una storia ispirata alla cronaca recente del suo paese, lo Zimbabwe. Un paese che il romanzo non menziona esplicitamente, ma che i fatti narrati rendono facilmente identificabile: è infatti nello Zimbabwe di Robert Mugabe che la violenza più efferata nei confronti degli agricoltori e proprietari terrieri bianchi continua a essere all'ordine del giorno. La redistribuzione della terra a favore della popolazione nera (in realtà alle élite al potere), realizzata in maniera selettiva e manovrata dall'alto, ha espropriato i proprietari bianchi delle loro fattorie spesso legittimando veri e propri abusi e crimini dei neri nei loro confronti.
Nella finzione narrativa di Ian Holding un ragazzo, Davey Baker, sopravvive al feroce assassinio dei suoi genitori, ricchi agricoltori, massacrati nella loro casa da una banda di teppisti neri, e devastato dal dolore e dal senso di colpa matura in breve tempo il proposito di vendicarli. Fugge dal collegio e, dopo un viaggio rocambolesco e accidentato, riesce nel suo intento. Intanto, la coppia di vicini di casa che lo ha accolto dopo la tragedia, Mike e Marsha, a loro volta agricoltori, e i migliori amici dei suoi genitori, intuito ciò che il ragazzo ha fatto, e sconvolti ma anche ammirati per il suo coraggio e determinazione, cercano un modo per "coprirlo", mettendo in atto una nuova serie di violenze nei confronti degli "usurpatori" neri. L'"ordine" consueto è così ristabilito.
Il romanzo ha un ritmo incalzante ed è ricco di suspense, abilmente dilazionata nella rappresentazione quasi al rallentatore dell'azione, spezzettata in scene che si sovrappongono l'una all'altra culminando nei due atti di violenza. Nessun tentativo di penetrare la psicologia dei personaggi da parte dell'autore, approfondire le loro motivazioni, se non quelle della vendetta. Come se nello Zimbabwe contemporaneo, in un sistema che si regge sulla corruzione e sull'ingiustizia, non possano emergere o sostenersi valori diversi. Viene in mente per contrasto il romanzo di J.M. Coetzee, Vergogna (Einaudi, 2000; cfr. "L'Indice", 2000, n. 11), pubblicato in Sudafrica all'indomani della caduta dell'apartheid, in cui si raccontava, tra l'altro, un tremendo atto di violenza nei confronti di una donna bianca e della sua piccola fattoria. Quel romanzo, che suscitò in Sudafrica un intenso dibattito e che molti giudicarono inopportuno (ma forse contribuì a guadagnare il Nobel al suo autore), mostrava in tutta la sua crudezza l'inevitabilità della violenza generata da violenze più antiche, perpetrate per secoli ai danni dei neri, ma soprattutto mostrava la dolorosa presa di coscienza da parte delle vittime delle loro colpe storiche, la necessità della confessione e dell'espiazione, processi totalmente assenti nel romanzo di Holding. Il titolo inglese, Unfeeling, volutamente indeterminato, descrive forse proprio questo stato generale di torpore, di coscienze addormentate che non percepiscono più il confine tra giusto e ingiusto e non sono più suscettibili al cambiamento.
Holding ci fa commuovere per la sorte del giovane Davey e dei farmers bianchi, costretti all'improvviso a rinunciare ai propri privilegi, ma non sembra preoccuparsi della sorte dei milioni di neri sfruttati per secoli. I personaggi appaiono inoltre stereotipati: quasi tutti i neri sono trattati in maniera caricaturale e offensiva, mentre i bianchi sono autoritari, violenti e tronfi, profondamente intrisi della morale del "cacciatore", che gode nel fare violenza al paesaggio e alle bestie inermi, armato di una visione del mondo ristretta al proprio universo. "La cosa peggiore che abbiamo mai fatto è stata concedergli l'indipendenza. Guarda che casino che hanno piantato", dichiara uno dei personaggi conquistandosi l'ammirazione del giovane Davey, che progetta per sé un ruolo eroico, di vendicatore. Davey stesso riserva più pietà ai suoi cani che ai bambini del compound ("negretti" nella traduzione!), ai quali assegna giochi crudeli e intimidatori. Le donne, mogli degli agricoltori, anche se infelici e depresse, restano solidamente dalla parte dei loro uomini.
Il romanzo, pubblicato in Inghilterra da Simon & Schuster, dove è entrato nella lista finale del premio Dylan Thomas, non ha avuto nessuna circolazione in Zimbabwe, e l'autore, per proteggere se stesso, ha adottato uno pseudonimo. Tutto ciò è comprensibile se si legge il romanzo come un atto di coraggio, ma potrebbe anche leggersi come provocazione, come mostrano le caute opinioni espresse fin qui da lettori e recensori.
Paola Splendore
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