Vizi eterni del giornalismo. Anno 1815, leggiamo i titoli del "Moniteur" dopo la fuga di Napoleone dall'Elba e a mano a mano che l'esule si avvicina al recupero del potere. 9 marzo: "Il mostro è fuggito dall'esilio". 10 marzo: "L'orso di Corsica è sbarcato". 11 marzo: "La tigre si è mostrata a Gap, concluderà la sua miserevole avventura tra le montagne". 12 marzo: "Il mostro è avanzato". 13 marzo: "Il tiranno è a Lione". 18 marzo: "L'usurpatore ha osato avvicinarsi alla capitale". 19 marzo: "Bonaparte avanza a marce forzate". 20 marzo: "Napoleone arriverà domani sotto le mura di Parigi". 21 marzo: "L'Imperatore è a Fontainebleau". 22 marzo: "Ieri Sua Maestà l'Imperatore è arrivato alle Tuileries. Niente può superare la gioia universale". Vercesi, oggi direttore di "Sette" del "Corsera", e già redattore a "La Stampa" e al "Corriere", ha ripescato questo capolavoro del "Moniteur" da un fornitissimo archivio di storie e notizie su quasi due secoli di vita del giornalismo, quello italiano soprattutto. Merita partire da lì per raccontare questo suo lavoro, che il titolo Sellerio inquadra in un ambito dove letteratura e potere, informazione e manipolazione, ambizioni e miserie, si fanno un delizioso pasticcio di avventure e disavventure la misura della cui nobiltà mai corrisponde all'idea che ne avevano i protagonisti. I libro è lo straordinario racconto di come l'Italia, paese in lenta e ansimante formazione, sia diventato uno stato, e magari una nazione, anche attraverso i racconti che di questa creazione ne facevano giornali e giornalisti, prima nelle gazzette e nei salotti dell'Ottocento, poi nelle battaglie politiche del giolittismo, quindi gli anni dell'orbace e il fascismo, e infine la nuova democrazia repubblicana. Si comincia da Ugo Foscolo, poeta illustre ma anche redattore giornalistico per il "Monitore italiano", tanto diligente da lasciarsi incantare dalle sirene dell'imperatore d'Austria e per un suo nuovo giornale finanziato da Vienna che traccia un programma editoriale di cieca obbedienza al potere: "Ogni casa regnante ha bisogno, diritto e dovere di ridurre le opinioni dei suoi sudditi al suo sistema di governo" (per fortuna sua, però, Federico Confalonieri e Giuseppe Pecchio si chiudono in una stanza con il devoto esule e, in un serrato confronto, lo convincono alla fine che è meglio lasciar perdere, che la sua dignità ne sarebbe stata pesantemente violentata, e in una notte intemerata Foscolo scappa di nascosto in Svizzera abbandonando la divisa austriacante che già s'era fatto preparare e il lauto compenso che l'avrebbe accompagnata). Il lungo viaggio diacronico passa dentro l'Ottocento e il Novecento con storie giornalistiche ben poco commendevoli, e nelle sue ultime pagine si chiude con la Milano da bere, dopo che giornali e giornalisti hanno traversato dapprima il regno in lenta edificazione, poi la prima guerra mondiale, il fascismo, poi ancora un'altra guerra, la nascita della repubblica, il neocapitalismo, e sempre, quale che fosse lo scenario storico, hanno saputo ritrovare la loro relazione accomodante con i poteri, i partiti, la grande finanza, il Vaticano: dentro queste pagine, naturalmente, Cavour e Giolitti, Mussolini e D'Annunzio, Cristina di Belgioioso e Ferrero, Afeltra e Mattei, e Rino Alessi, Paietta, Virgilio Lilli, Barzini, Malaparte, Togliatti, Missiroli, Buzzati, Vergani, Giovanni Agnelli accomodante con Tambroni, insomma una sapida galleria di ritratti, di speculazioni, di conformismi diffusi, di rare difese della dignità d'un lavoro che invece e con qualche ragione (allo stesso modo, Otto o Novecento) i padroni delle testate editoriali considerano poco più d'un servizio dovuto. Hanno ragione, i padroni delle testate, perchè il carattere del giornalismo italiano che i quasi due secoli di protagonisti del libro finiscono per definire con inquietante continuità rivela una gaglioffagine diffusa, un'ampia disponibilità al servilismo intellettuale, un cedimento volenteroso al conformismo e al quieto vivere, come se queste debolezze d'un mestiere avvilito siano l'altra faccia dell'identità di un popolo. Vercesi, comunque, racconta, e bene, ma non dà giudizi. Questi, li tira fuori da se stesso il lettore, e non è un risultato consolante. M. C.
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