L'Italia, dopo la guerra, stava cambiando rapidamente. L'industria culturale si rafforzava, sintomo evidente che, nelle viscere stesse del tessuto civile, si preparavano grandi trasformazioni. Circolava, infatti, quantomeno nelle realtà urbane, la cultura di massa di provenienza americana. Inoltre, le prime forme della società dei consumi, ancora aurorale, si affermavano. Motociclette, automobili, vacanze estive. Tutto ciò concerneva una parte ancora minoritaria degli italiani. Era in atto, ad ogni buon conto, una secolarizzazione politica e culturale che insidiava sì i democristiani, ma anche i comunisti, i quali dovevano fare i conti con una realtà rurale in declino, il che li coglieva impreparati. Dovevano contestualmente, i comunisti, fare i conti anche con una classe operaia in crescita, ma interessata alla lotta sindacale e insieme all'acquisto a rate delle utilitarie prodotte dall'azienda che era il bersaglio della lotta stessa. Il tradeunionismo, tanto osteggiato da Lenin, diventava, come in tutti i paesi avanzati, una realtà e addirittura una manifestazione vivace e dinamizzante del ciclo economico. Erano insomma state poste le basi per quella lunga transizione che troverà il Pci stretto tra Elvis Presley e Ho Chi Minh. Ci si era del resto ormai rassegnati all'idea, presente in Europa sin dal viaggio ottocentesco di Tocqueville, che l'America rappresentasse un futuro che in qualche modo, fosse esso desiderabile o no, sarebbe stato importato. Quanto alla contrapposizione tra Stati Uniti e Urss, essa aveva certamente qualcosa di vitale ed evidente era l'interdipendenza bipolare che attanagliava i due miti popolari che le superpotenze, negli anni cinquanta, rappresentavano. Non è vero, nonostante i "vade retro" ideologici, che un mito sbarrava la strada all'altro. Vi era anzi, tra le due realtà, un rapporto sinergico, anche se in Italia l'alta cultura umanistica (spesso esigua, spesso anticomunista, spesso laica e sempre diffidente verso l'American way of life), vedendo la propria missione pedagogica in serio pericolo, non nascondeva l'insofferenza per la cultura di massa, e in particolare per la televisione ‒ che iniziò le trasmissioni a partire dal 3 gennaio 1954, ore 11 ‒ e per l'intrattenimento popolare, segnati a dito come un nuovo oppio dei popoli con l'aggravante della volgarità. Non va tuttavia passato sotto silenzio il fatto che un certo filisteismo culturale, nel corso degli anni cinquanta, sul piano non solo teorico, ma su quello più propriamente specifico del "gusto" (Carducci piaceva ancora molto più di Kafka, o di Joyce, e non era infrequente vedere irrisi ermetici e "non figurativi"), fu comune, in nome anche di una morale puritana e di un generalizzato sentimento "anti-decadente", all'italo-marxismo, al pensiero cattolico e alla liberale scolastica crociana. Tre culture, queste, che, nei loro esponenti più "tradizionali" (e più numerosi), si trovavano attratte dalla forza di gravità esercitata dall'arretratezza del paese, un'arretratezza che stava tuttavia per essere modificata strutturalmente ‒ anche se non debellata ‒ da processi economici dirompenti che costringeranno le culture dominanti italiane, negli anni sessanta, a cambiare statuto, a ibridarsi tra loro e con altre culture, ad abbandonare vecchi bigottismi e perbenismi (che consociavano in un'inconfessata coincidentia oppositorum non pochi seguaci di Pio XII, di Togliatti e di Croce) e a farsi veicolo, in modo spesso assai originale, e spesso anche gioiosamente acritico e adolescenzialmente "trasgressivo", dell'introduzione in Italia di ciò che, di non convenzionale, e di anticonformistico, si stava producendo in Europa e soprattutto in America. Il primo quotidiano uscito nell'Italia liberata dai fascisti e dai nazisti era comparso il 1° agosto 1943 a Caltanissetta. Molti fogli poveri, e tuttavia vivacissimi, e avidamente letti, comparvero poi, l'anno successivo, nella Roma liberata. Nel solo 1945 videro la luce, in tutta Italia, ben 101 testate. Arrivò infine la televisione, che esplose in modo decisamente massiccio nel 1956. In quell'anno, allorché si affermò il quiz Lascia o raddoppia?, vi furono circa 29 milioni di ingressi al cinema in meno. Quanto al mondo cattolico, esso tentò di mantenere sulla tv la stessa egemonia che era stata esercitata, in modo quasi perfetto, negli anni tra il 1947 e il 1955, sulla radio. Nei primi tempi la cosa fu relativamente possibile, ma il nuovo medium, per la sua natura, a causa delle immagini che veicolava, e, come ci spiega il gran bel libro di Gozzini, a causa della condizione di esibitissimo "status symbol" della classe media che subito lo connotò, si trovò progressivamente collegato alla secolarizzazione, all'individualismo di massa e all'edonismo. È pur vero che ci sarà chi, partendo addirittura da presupposti filosofici di tipo tomistico, come Marshall McLuhan (si veda Understanding Media, 1964), discorrerà poi, a proposito degli utenti della televisione, di "villaggio globale", e quindi di persistenza, non sempre pacifica, nell'anomico mondo contemporaneo, della forma-comunità, sia pure surrogata telematicamente. Ma in Italia ‒ la Bbc aveva iniziato le trasmissioni nel 1936 e la Nbc (Usa) nel 1939 ‒ sarà piuttosto, per ragioni di consenso politico, la DC, partito della mediazione permanente, a decifrare i "segni dei tempi" e a esercitare abilmente, per trent'anni e più, l'egemonia sulla televisione. Il mondo cattolico, in quanto tale, faticherà tuttavia sempre di più a tenerla sotto controllo. Il "villaggio globale", generatore di una comunità fittizia (o "virtuale", come si preferirà poi dire), sarà lo specchio di una realtà complessa, individualizzante (eccola qui la "mutazione individualista"!), omogeneizzatrice sulla base dei "modelli" e non dei "valori", sradicalizzante. Sarà insomma, ben oltre il 1960, e quindi nel tempo più lungo, un potente colpo di acceleratore assestato, con la complicità dello sviluppo economico e dell'americanofilia dilagata, alla secolarizzazione. Per un arco lungo di tempo, grazie alla preminenza democristiana nel sistema politico, la televisione sarà comunque una "compagna di strada" dei cattolici, quanto inaffidabile ‒ nonostante lo straordinario appeal telegenico di Woytila ‒ lo si capirà più tardi. Gozzini sottolinea con perizia tutto ciò, anche statisticamente, affiancando la crescita della televisione e il boom economico 1954-1967. Tra il 1955 e il 1990, raggiungendo il frigorifero, l'uso e l'abuso della tv scavalcherà negli acquisti (effettuati dal popolo e dall'upper class) le motociclette, i chilogrammi annui di carne comprati nelle macellerie, le automobili, le lavatrici. E la storia della tv diventerà, come pezzo della storia d'Italia, non di molto meno importante della Storia del giornalismo, titolo dell'ineguagliato libro, dello stesso Gozzini, uscito da Bruno Mondadori nel 2000 e poi nel 2011. La politica stessa diventerà in tv, secondo Gozzini, un genere di consumo e i consumi diventeranno spettacolo per grandi e piccini: si pensi a Carosello (1957-1977), citatissimo anche dopo la sua fine. Non ci sarà scampo. Dalla televisione pedagogica, che coesisteva con il Musichiere, si passerà alla "neotelevisione" di Portobello e di quel Grande fratello che neppure Orwell avrebbe potuto prevedere. La rottura avrà luogo tra il 1968 e il 1980. Poi verrà rappresentata, tra il 1981 e il 1993, l'Italia degli individui. E da ultimo la stessa tv, rimassificati ipnoticamente gli individui, compirà la sua discesa in campo. Bruno Bongiovanni
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