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Per me, Ornette Coleman era un essere umano quasi al meglio delle possibilità della specie. Uno di quelli di cui si dice che si portano in spalla il mondo. Un esempio di come il massimo nella vita non sia vincere o perdere, ambedue più o meno facili in fondo, ma non vincere e non essere vinti, cosa invece assai più difficile. Comunque sia, per esprimere il suo amore per il mondo gli è capitato fra le mani un sassofono di plastica, poi anche la tromba e il violino.
«La mia vita […] ha come titolo la parola “arte” e come suo cuore l’amore». Questa sua dichiarazione forte la trovo in Musica senza alfabeti, con sottotitolo Un dialogo sul linguaggio dell’altro, una conversazione tra Jacques Derrida e Ornette Coleman stampata nella notevole collana di Mimesis dedicata alla musica contemporanea nei suoi aspetti filosofici. Il dialogo in sé consta di una quindicina di pagine, incastonate però in un multiforme apparato critico a cura di Samantha Maruzzella, introduzione del filosofo e musicista Massimo Donà nonché gli studi di Robert Palmer e Masashi Sasaki. L’incontro tra i due era avvenuto a fine giugno del 1997 a Parigi: Derrida aveva accettato l’invito del settimanale Les Inrocks di fare un’intervista al jazzista, di cui sapeva molto poco.
Intervista? Dialogo? In senso estensivo si può dire sia stato in realtà un incontro tra complicazione e complessità, il filosofo cerca com’è giusto di capire quello che non sa dell’altro, il musicista di spiegare quello che non sa di sé. Certo Ornette i problemi sul linguaggio, musicale e non, li poneva al suo solo incedere, e li risolveva a modo suo. Dall’altra parte il filosofo padre del decostruzionismo quei problemi se li poneva seriamente e li poneva al mondo intero (Ornette anni dopo mi ha descritto il suo interlocutore come uno che «non riusciva a spiegarsi proprio come me») con la piena e sana consapevolezza che non riuscirà a risolverli. Una condizione pressoché ideale, difatti si ha l’impressione di assistere allo strambo appuntamento tra una complicazione ariosa e una calma complessità; tra il disagio rattenuto come carburante intellettuale e la quiete come primigenio senso d’orientamento. Quasi un’intervista impossibile.
Tutto ruota attorno alla questione (o all’enigma) della definizione di Armolodia, vale a dire per Coleman la «grammatica del suono, e per la parte più tecnica la chiamo Armolodia», la teoria che soggiace e informa tutta la musica del texano, anche prima che ne inventasse il nome, pure all’epoca del free jazz insomma. Nessuno è mai riuscito a cavargli una definizione esaustiva o almeno uguale alla precedente, e il libro lo dimostra con molti esempi («L’armolodia ha a che fare soltanto con tutto quanto sia uguale istantaneamente»; «L’idea è che due o tre persone possono avere una conversazione senza cercare di dominare o indirizzare la conversazione stessa. Si tratta di intelligenza, questa è la parola. Per me la musica non ha un leader»; «Il corpo e la mente della propria logica trasformato in un’espressione di suono per portare la sensazione musicale dell’unisono» etc.). E appare molto armolodico il modo in cui molti (compreso me all’epoca) si sono provati a dargli un senso.
Come coglie Palmer, Coleman non elude intenzionalmente la definizione di Armolodia. Non la sa, ed è questo non saperlo a mettere in azione la sua musica; suggerisce inoltre che le sue risposte verbali possono essere di per sé manifestazioni di ciò che intende per Armolodia: «improvvisa la sua risposta senza concludere in una dichiarazione concreta che suonerebbe come un pezzo di materiale composto. Le sue associazioni continuano la conversazione senza sintetizzare completamente un rapporto dialettico di domanda-risposta». Eccolo in azione: «Il fatto di pensare e sapere non dipende solo dal posto dove sei nato. Questo mi ha permesso di capire sempre meglio che quello che chiamiamo cervello umano, nel senso di conoscenza ed essere, non è la stessa cosa del cervello umano che ci fa essere ciò che siamo». Una mente necessaria che sta lì fin dall’inizio e una contingente, forse; sta di fatto che con Ornette a volte era più di una conversazione sovrana, estatica si potrebbe dire.
L’ascolto più accurato può suggerire come, mescolando il rigore alla casualità, il campo d’azione della sua musica sia la concezione finora dominante, quella che tende a contrapporre il tempo autentico, il tempo interiore della coscienza al tempo esteriore del mondo, quella insomma che ha sì consentito la costituzione del concetto di coscienza individuale come luogo di emancipazione ma che, bisogna ormai constatare, ha pure ridotto e di parecchio la nozione di razionalità, e la riduce di giorno in giorno.
E poi, quasi come in un giallo, nel finale, cioè nel saggio di Sasaki, si arriva a una soluzione dell’enigma abbastanza credibile o incredibile, a seconda: la modulazione armolodica deriverebbe da un errore dello stesso Coleman, quando da ragazzo ha iniziato a imparare il sassofono su un manuale, fraintendendo la lettura degli spartiti: «Ricordo di aver pensato, come diceva il libro, che le prime lettere dell’alfabeto fossero le prime lettere della musica». Cioè a dire do, re, mi, fa etc. che nelle lingue romanze corrispondono a CDEF etc., da lui invece sono state prese per ABCD etc., quindi il fraintendimento l’avrebbe portato alla scoperta che «la connessione tra una nota e il nome non è fissa e non corrisponde uno a uno». Non solo, da buon texano invece di ravvedersi ha perseverato nell’errore, e nel passaggio dal sax tenore, che suonava all’inizio nei locali di rhythm & blues, al contralto ha trasposto le chiavi del primo nel secondo, un processo descritto da Coleman come «la fusione collettiva totale degli strumenti trasposti e non utilizzando gli stessi intervalli». A supporto la definizione «armonia parallela» fornita dal fedele bassista Charlie Haden, cioè che, all’unisono, i diversi musicisti suonano contemporaneamente gli stessi suoni, per arrivare «a melodie che non sapevi esistessero». Eccoci quindi a una definizione meno peggio delle altre: l’Armolodia come «metodo per ispirare modulazioni interpretando qualcosa di interno ai musicisti».
Recensione di Paolo Morelli.
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