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A distanza di cinquant'anni dalla sua composizione, questo testo ha ancora qualcosa da dire al lettore moderno, e non solo allo studioso interessato all'opera di un grande interprete della classicità, quale Otto indubbiamente è stato. La ricerca della vera essenza della Musa ha accompagnato l'autore nel corso dei suoi studi e in questo saggio trova la sua più compiuta risposta. Un mito vuole che al termine della creazione Zeus abbia domandato agli altri dei se qualcosa fosse stato tralasciato; ci si accorse che mancava una voce capace di lodare la grande opera con parole e musica. Fu allora che nacquero le Muse, figlie di Zeus e di Mnemosyne; esse cantano, danzando, la beatitudine degli dei e il destino degli uomini. Lo svelamento della natura della Muse avviene per gradi: prima vi furono le Ninfe, che vivono da sempre nei boschi e nei campi dove risuona la loro melodia. Poi giunsero le Muse, abitatrici delle sacre vette, che afferrano le menti dei mortali e trasmettono loro la conoscenza: il poeta è il loro primo ascoltatore, ma le Muse presenziano anche all'agire umano, sono guide necessarie al legislatore e al guerriero, al filosofo e al fanciullo. L'ascolto dell'eco del loro canto permette a Otto di cogliere l'origine del linguaggio umano, che altro non è se non manifestazione dell'apparire delle cose: "L'autorappresentazione dell'uomo in mezzo al suo mondo e, a un tempo stesso, lo svelarsi del mondo stesso". La fede di Otto nelle sue Muse non gli impedisce di percepire il paradosso di vivere nella lontananza da una grecità sempre presente: in questo risiede forse il fascino più grande del suo pensiero.
E. Berardi
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