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“Il ragazzo ha iniziato a parlare tardi. È timido, cauto; sa aspettare”. Con queste parole inizia l’unico romanzo di Vladimir Tasić pubblicato in Italia, che vede come protagonista un undicenne, sulla cui lentezza, pazienza, malinconica riflessività l’autore insiste continuamente: a ribadire un evidente rifiuto o incapacità di crescere dell’adolescente, il suo proponimento di evitare un pericolo incombente, una nuova sofferenza. Quale precipizio tenta di dribblare il giovane protagonista? Il disfacimento del suo nucleo familiare, ovviamente. Padre e madre del ragazzo si sono separati, non condividono più nessuna abitudine, nessuna parola. Il punto di vista del ragazzo viene gradualmente sostituito da quello dell’autore, nella descrizione accorata e presumibilmente autobiografica delle vicende della coppia: dagli studi universitari a Belgrado, al fidanzamento e al matrimonio, agli attriti con le rispettive famiglie e alla crescente insofferenza per l’ambiente culturale circostante. Fino alla decisione di trasferirsi a Toronto, al progressivo incrinarsi del rapporto coniugale: incomprensioni, litigi, violenze, ricatti, separazione. La crisi familiare si riflette nel rapporto con il paese ospitante, lo strisciante razzismo subito, i legami con l’emigrazione slava, il fastidio per le abitudini sociali, alimentari, culturali canadesi. Infine, la deriva, l’abbrutimento del padre, che cerca rifugio nell’alcol e nella pornografia; il costante rimpianto della madre per il proprio paese. Sullo sfondo, la guerra in Bosnia vissuta con il senso di colpa del transfuga scampato allo sfacelo, il gioco sordido dei servizi segreti, il sospetto che si insinua nei rapporti amicali e professionali. Il muro di vetro suggerito dal titolo è quello che separa i tre protagonisti dal resto del mondo, imprigionandoli in un bossolo di egoismo e sofferenza, paura e nostalgia, ma restituendoli visibili a se stessi e agli altri nella descrizione implacabile di una scrittura sintetica e asciutta.
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