Paolo Nori nell'introduzione ci racconta che nel 1991 a Mosca a pochi metri dalla piazza Rossa c'era una libreria che si caratterizzava "più che per il fatto di essere volante e informale, per il fatto di vendere un libro solo, pile e pile di
Mosca-Petukì, il poema (ferroviario) di Venedikt Erofeev". Strana e complessa la storia di questo libro, scritto nel 1970 e da subito circolato come samizdat (autoprodotto quindi, e riprodotto clandestinamente in infinite copie carbone). Nel 1973 la prima pubblicazione in forma ridotta, in Israele. L'uscita dalla clandestinità, in Russia, è solo nel 1989 (ed è questa l'edizione vista da Nori a Mosca). Nel 1991 viene scritto che in Russia "l'immortale poema... ormai lo conoscono tutti quelli che hanno un rapporto, per quanto minimo, con la letteratura o, nella peggiore delle ipotesi, con la vodka". E ancora più strana e complessa la storia della sua vita nell'editoria italiana. La prima traduzione, 1977, Feltrinelli, a cura del mitico Pietro Zveteremich, è intitolata
Mosca sulla vodka (il fortunato anche se non filologico titolo è derivato da quello dell'edizione francese,
Moscou-sur-
vodka, Albin Michel, 1976). Segue, nel 2003, l'edizione Fanucci (
Tra Mosca e Petukì), tradotta da Mario Caramitti. Nel 2004 di nuovo Feltrinelli nella collana "Comete", sotto il titolo di
Mosca-Petukì e altre opere (traduzione di Gario Zappi). E ora quest'ultima, la quarta in meno di quarant'anni. Quattro edizioni di un non-romanzo (non a caso è detto "poema"). Di un libro non certo facile, privo com'è di una vera e propria trama. Di un libro certo satirico e, a sprazzi, tragicamente "comico", ma molto sperimentale, frutto compiuto di un'avanguardia ormai lontana nel tempo. E soprattutto di un libro estremamente, intimamente "russo". Il viaggio in treno da Mosca a Petukì (il narratore è Erofeev) con lo scopo di raggiungere la "Zarina spudorata con gli occhi come una nuvola" e con "la treccia dal culo alla nuca" è scandito in tratte tra una stazioncina e l'altra (Kusovo-Novogireevo, Novogireevo-Reutovo ecc.). Ma l'organizzazione è puramente di facciata. La vera struttura profonda del testo è rappresentata dalla non-struttura di un'infinita serie di dissertazioni, divagazioni, sproloqui e deliri. Deliri soprattutto alcolici. Prima della partenza Venedikt (o Venička o Venja...) fa provviste: due bottiglie di Kubanskaja, due "quartini" di Rossijskaja, un po' di rosso, del rosato secco... e anche due panini "per non buttar via" (vale a dire per non vomitare durante la bevuta). Sarebbe interessante censire tutti gli alcolici citati. Oltre alle diverse qualità di vodka (come le marche già citate) c'è la vodka del Bisonte, quella al cumino, quella al coriandolo... E poi ci sono tremendi vini liquorosi come lo xeres o il "portvejn" di produzione locale, o l'Albe-de-dessert (vino bianco moldavo che "sembra fosse uno dei vini più economici che si potevano trovare", come scritto in nota). E poi i "cocktail", dai nomi esilaranti e dalle ricette inquietanti nelle quali compaiono, oltre all'alcol denaturato, all'acqua di colonia e alla vernice depurata anche shampoo, insetticida "per insetti piccoli", deodorante per i piedi, soluzione antiforfora ecc. È in questi passi che Erofeev raggiunge i vertici di una indiscutibile ma ardua comicità. Frammischiati ai nomi degli alcolici quelli, numerosissimi, di letterati (come fossero parificati alle bottiglie nel ruolo di inserti materici): Gogol', Turgenev, Puskin, Gor'kij, Blok, Onegin, Herzen, per limitarsi ai russi. Tra le pagine migliori quelle dedicate al lavoro di montatore di cavi e ai bislacchi "grafici individuali" (su quanto bevuto durante l'orario di lavoro) la cui invenzione è orgogliosamente rivendicata da Venedikt. Belli alcuni personaggi di sfondo, come quello del controllore capo o dell'ubriacona Darja ("era tutta ubriaca dall'A alla Zeta e il basco le ballava in testa") detta "la donna dal destino complicato" che afferma "anch'io voglio Turgenev e da bere", riproducendo in piccolo l'affascinante mix di alcol e letteratura di cui tutto il libro è impastato. Rimane un fondo di mistero. Mentre è chiaro il perché della fascinazione che il testo ha esercitato su Nori che, oltre a scrivere una godibilissima introduzione arricchita di brani tratti dai taccuini di Erofeev, questi sì inediti in Italia, ha sfidato un'opera che si suppone ardua, ideando soluzioni traduttorie ardite ma molto felici (come quando indica la sbornia pesante con
ciclone, da cui esilaranti neoconiazioni come
inciclonarsi e
inciclonato nonché
anticiclone: il post sbornia evidentemente), non è altrettanto chiara la pulsione industrial-commerciale di Quodlibet nel rimettere sul mercato un testo difficile e non certo classificabile tra le "novità".Rimane una sola spiegazione del mistero: esistono ancora editori coraggiosi che concedono fiducia a pericolosi intellettuali come Paolo Nori. Luca Terzolo