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A Fabrizio Denunzio la taccia di eresia non importa. Collocarsi al di fuori di ogni corrente degli studi su Benjamin è in sé un merito, dati i successi di questo loser nelle mode filosofiche, editoriali e culturali di questi anni. L’angolatura è originale – evidente sin da Quando il cinema si fa politica (2010). Ancor più nella Morte nera. Lo stile è assertorio, didascalico, deduttivo. Denunzio avvicina testi notissimi come fosse la prima volta, li incrocia con frammenti poco visitati e propone un mash up che costringe immancabilmente a leggerlo due volte: quando affianca al celebre saggio su Kraus la poco nota recensione di Haecker, la chiosa è cristallina: «non volendo essere affatto raffinati, anzi, volendo peccare di rozzezza». Lo stesso accade quando impiega concetti inventati con indubbia capacità plastica (l’Illuminismo «compresso»), quasi fossero concetti benjaminiani. In più, Denunzio incrocia temi forti: l’arte politica, l’uso della radio. Brillante, oggi, la scelta di affrontare una variante della Germania segreta, lemma che Benjamin mutua da Stefan George (chissà perché assente nel libro), e delle tante letture dell’intima affinità tra l’Intelligenz tedesca e le idee naziste, che da Kantorowicz e Lukács a Jesi e Lacoue-Labarthe, hanno attraversato l’incompiuta seduta di autocoscienza europea.
Qui si tocca un capitolo inedito: Benjamin e il fascismo. Fascismo che, ben mostra Denunzio, Benjamin ha visto di persona – nel 1924, nel mitico viaggio a Capri, vede Mussolini, restando colpito da una fisicità goffa e inarticolata –, ha intervistato nella sua versione francese (Georges Valois), ha recensito nella sua variante tedesca prenazionalsocialista (il libro di Ernst Jünger e soci, stroncato nel 1930), per poi farne un oggetto teorico, sicuramente avversario, ma – questa la tesi dirompente – altresì abitante nel corpo biografico e nell’armamentario teorico benjaminiano. Non solo, quindi, Benjamin studia, avversa e teorizza il fascismo, ma Benjamin ha un fascista dentro di sé: nel senso pasoliniano, deleuziano, che è sempre il caso di riattivare. E Denunzio si cimenta con zelo sull’ipotesi di un Benjamin abitato. Lo mostrerebbero ricordi infantili sedimentati nella Cronaca berlinese, il rapporto negli anni Dieci con Gustav Wyneken, «guida» autoritaria e guerrafondaia del Movimento giovanile, ma anche il ruolo del tiranno nello studio sul barocco tedesco, la cui coincidenza con la «visione» di Capri viene usata come detonatore onniesplicativo, la lettura di Kafka e dei suoi funzionari sadici. Che i due punti biografici (il padre e Wyneken) ricorrano teoricamente in chiave psicanalitica in due dei suoi scritti maggiori è assunto problematico, ma va a sostanziare la tesi di un inquilino imprevisto nel Benjamin teoreta del fascismo: Benjamin fascista.
Esattamente questo afferma Denunzio: «la coerenza sistemica della teoria del fascismo benjaminiana può essere assicurata solo postulando che il suo autore si sia profondamente identificato con esso. Dal momento che non si può dare fascismo senza l’uomo fascista, allora, la validità di questa teoria di Benjamin sta nel fatto che ad averla pensata è il fascista che lo abitava, ma che, per fortuna, non lo possedeva».
Crudo, insinuante, il libro di Denunzio usa una bibliografia parca ed equilibrata (undici titoli di Benjamin, undici di Denunzio, articoli di giornale inclusi, poi altri diciotto testi, poi basta), ed è pieno di intuizioni. Eppure, il tessuto argomentativo rapido, apodittico, oltre al fuoco del libro, lascia colare anche omissioni (dov’è Georges Sorel, menzionato di corsa in un libro sul fascismo e Benjamin?, dove Bachofen?), inutili parafrasi di Habermas (utilizzato a piene mani in un excursus per un riassuntino di storia della filosofia), slalom speciali su temi-chiave: dell’empatia si è detto, ma si pensi al concetto fascista di natura, sfiorato e mai analizzato, ma centralissimo proprio nelle Teorie del fascismo tedesco e possibile volano per sfuggire alla rilettura proposta, iper-francofortese, del bivalente illuminismo benjaminiano; si pensi infine a come, figlio dell’alta borghesia ebraica assimilata, Benjamin della borghesia ha marxianamente mostrato l’ambigua, contraddittoria grandezza.
In questa sua singolare forma anti-scientifica, l’intenzione davvero profonda che abita il saggio, e forse lo possiede, risulta difficilmente comprensibile al di fuori del moto d’identificazione spiegato nelle Memorie di famiglia dell’Introduzione (il lignaggio fascista dell’autore, naturalmente ripudiato). Un tratto, questo, che rende sì il testo una ricerca di antidoti, ma anche una requisitoria senza contraddittorio, perché in sostanza autoaccusa. Raccolta di intuizioni talora lancinanti, La morte nera è un libro da integrare, argomentare, arredare, senz’altro abitare col rigore necessario. Per poi magari espropriarlo di ogni immedesimazione.
Recensione di Massimo Palma.
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