Adachiara Zevi è storica dell'arte, specializzata in architettura e arte contemporanea, promotrice dell'Associazione arteinmemoria e presidente della Fondazione Bruno Zevi. Se il monumento fin dall'antichità (dal latino "memento") si è posto per ricordare fatti o personecon ieraticità e ampiezza, oltre che con l'utilizzo di materiali pregiati, esso diventa "per difetto" allorché tali caratteristiche vengono meno, per una più forte adesione alla forma letterale, che non a quella esemplare, di quanto si vuol ricordare. L'autrice fa sua l'affermazione di Lewis Mumford, storico americano per il quale "monumento" è sinonimo di "morte", nella misura in cui mura la vita. Inoltre, se il Novecento fu un secolo buio di carnefici e di vittime, ricordare si farà più spargendo ceneri che non costruendo, più inducendo a meditare che non ad ammirare. E la visita al monumento si muterà in pellegrinaggio. Il libro di Zevi è uscito in concomitanza con il settantesimo anniversario delle Fosse Ardeatine. Il Mausoleo a esse dedicatopuò considerarsi il primo esempio di anti-monumento in quanto appello antiretorico alla memoria. Il concorso per la sua realizzazione ebbe luogo fin dal luglio del 1944, un mese dopo la liberazione di Roma e quattro mesi dopo la strage. Un susseguirsi di altri concorsi, di permessi e di contrasti (non ultima l'opposizione degli stessi familiari delle vittime alla sobrietà dei progetti) giunse alla conclusione solo nel 1952. Il Mausoleo delle Fosse Ardeatinene risulta non tanto come oggetto da contemplare, quanto come percorso da agire. È pietra miliare che segna, con la pluralità dei linguaggi messi in campo, anche la ripresa del dibattito artistico interrotto negli anni del fascismo. Per la prima volta il fulcro di un monumento è un'assenza, additata dalle cose di contorno: le cave, il sacrario, la scultura (Cocci) con tre personaggi dalle mani legate, il doloroso contorcersi del cancello (Mirko). Il Giardino dei giusti e lo Yad Vashemsono due esempi assoluti di opere in progress dedicate alla memoria in quello stato d'Israele che è di per sé il monumento più idoneo alla memoria degli ebrei decimati. E in tutta Europa, particolarmente in Germania, molti sono i casi di monumenti, per così dire, a doppio uso: ricordare senza colpevolizzare, onde evitare rimozioni. Due esempi eccellenti sono il Museo ebraico di Daniel Liebeskind (1999) e il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa, o Memoriale della Shoah, di Peter Eisenman (2005), entrambi a Berlino. Via via tutte le nazioni le cui vittime furono il frutto di crimini da loro stesse commessi fecero ammissione di colpa. Così gli indiani d'America, gli afroamericani, i caduti del Vietnam hanno dato vita negli Stati Uniti alla trasformazione di brani di città in luoghi di memoria, coordinati da politici e storici, realizzati da architetti e artisti, tra i quali Joseph Beuys, quasi un precursore, Mirko Basaldella, Daniel Buren, Christian Boltansky, Frank Stella, Sol Le Witt, Richard Serra, Donald Judd, Maria Nordman, Menashé Kadishman. Importante più che mai la componente architettonica decostruttivista, da Frank O. Ghery a Daniel Liebenskind, Peter Eisenman, Zaha Hadid. Un "mosaico di memorie" sono gli Stolpersteine, o "pietre d'inciampo", ideate dall'artista tedesco Gunter Demning nel 1993. Si tratta di sampietrini di tipo comune e di dimensioni standard (10x10 cm) sulla cui superficie in ottone sono incisi nome e cognome della vittima, data di nascita, di deportazione e, se conosciuta, di morte. La pietra è collocata sul marciapiede di fronte alla casa che fu la sua abitazione. L'inciampo, del tutto mentale, diventa anche contributo prezioso alla ricerca storica, in quanto gli Stolpersteine sono per eccellenza in progress, destinati a moltiplicarsi. Raggiungono oggi il numero di 45.000, in 17 paesi europei, di cui 898 in città tedesche, 5.000 solo a Berlino. Dal 2010 anche l'Italia partecipa al progetto: 200 sono le pietre collocate a Roma, ma è possibile "inciampare" in molte altre in città, tra le quali L'Aquila, Prato, Genova, Bergamo, Brescia, Padova, Ravenna, Venezia, Livorno. Fa loro eco il Museo diffuso, museo che espropria e non si appropria, potenzialmente senza collezione fissa, in antitesi con il tradizionale museo roccaforte. Esemplare il torinese Museo diffuso della Resistenza, della deportazione, dei diritti e della libertà, in espansione dal 2003. Sandra Rebershak
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