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Un mondo a parte. Cecità e conoscenza in un istituto di educazione (1940-1975) - Fabio Levi - copertina
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Un mondo a parte. Cecità e conoscenza in un istituto di educazione (1940-1975) - Fabio Levi - copertina

Dettagli

1997
1 gennaio 1997
240 p.
9788871580586

Voce della critica


recensione di Vineis, P., L'Indice 1992, n. 4
(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)

Fabio Levi descrive con accuratezza e abbondanza di particolari uno di quei microcosmi destinati all'oblio o a divenire oggetto di una compassionevole curiosità da parte dell'opinione pubblica: i giovani ospiti di un istituto di rieducazione per ciechi di Torino. L'opera è apprezzabile, proprio per la scotomizzazione (il termine oculistico è quanto mai appropriato) di cui sono spesso vittime le minoranze affette da deficit organici, o viceversa per l'investimento ideologico che gli si riversa addosso. Il libro di Levi è invece un esempio di equilibrio, anche per la sua struttura formale: esso inizia infatti da una storia degli atteggiamenti verso la cecità, per addentrarsi progressivamente entro la piccola comunità ospite dell'istituto (fino a darne un resoconto minuzioso e sfaccettato), per riprendere infine alcuni dei temi generali concernenti i rapporti tra cecità e conoscenza del mondo esterno. Probabilmente nessuna specifica comunità più di quella dei ciechi esprime, in modo distorto e quasi caricaturale, tutti i problemi e i conflitti che caratterizzano le minoranze. Nel caso dei ciechi le possibilità di controllo da parte della maggioranza - i vedenti - sono pressoché totali, talvolta esercitate all'eccesso e persino con sadismo (per esempio uno dei direttori impedì l'ascolto della radio, unico legame concreto con il mondo esterno).
Come lente di ingrandimento della realtà, compresi i grandi avvenimenti storici, la comunità dei ciechi funziona benissimo. Vi sono almeno tre importanti esempi di questioni generali che nel mondo chiuso dell'istituto vengono amplificate e portate all'estremo.
La prima è costituita dalla concezione del "servizio" reso ai non-vedenti, e più in generale delle istituzioni intese come servizio pubblico. Prima della svolta del 1970 (quando venne occupato ed iniziò una fase di modernizzazione) l'Istituto per ciechi era retto in base a principi autoritari e paternalisti, che nel casa specifico venivano giustificati con la necessità di inculcare nei ciechi, in modo reiterato ed ossessivo, alcune semplici abilità che li rendessero almeno parzialmente autosufficienti. La concezione assistenzialistica, l'intreccio tra autoritarismo e paternalismo, la lunga durata dei ricoveri, sono tutti tratti delle istituzioni assistenziali italiane che hanno caratterizzato il periodo fascista e quello democristiano fino a tempi recenti. Ad una concezione non molto dissimile si ispirava ancora pochi anni fa, per esempio, l'organizzazione ospedaliera: l'istituzione non mira a rendere un servizio ad un paziente che goda di rispetto e diritti individuali, ma è una struttura dotata di vita propria e di sue regole autonome di funzionamento (i pasti a ore assurde, la scarsissima disponibilità di spazi per i pazienti e i loro parenti, ecc.). In questo senso il libro di Levi ci è utile per capire come una vera cesura, per esempio nei rapporti tra cittadino e istituzioni, tra utente e servizi, non si sia verificata con la caduta del fascismo, ma con i primi anni settanta (sulla continuità tra fascismo e regime democristiano c'è sicuramente ancora molto da dire).
Un secondo problema di natura generale che nel microcosmo dei ciechi viene amplificato, e pertanto reso più chiaro e comprensibile nella sua contraddittorietà, è quello dei rapporti tra minoranza emarginata e potere: definirei questo problema come dialettica tra "isolamento" e "partecipazione". Si tratta di un conflitto che si rese acutamente evidente alla fine degli anni sessanta, e fu all'origine di dispute e scissioni nei movimenti spontanei di quegli anni. Nel caso dei ciechi il conflitto, ancora una volta, assume toni drammatici e perfino caricaturali: per esempio, il metodo Braille ha costituito un innegabile contributo all'emancipazione dei ciechi, ma anche un elemento di loro ulteriore isolamento dalla comunità dei vedenti. Così, nel periodo successivo all'occupazione dell'istituto i ciechi si chiedevano se porsi in una prospettiva di modernizzazione e di dialogo con l'istituzione, o viceversa accentuare la diversità e procedere verso un'autogestione che rischiava di tramutarsi in un ovvio quanto drammatico isolamento. Si noti che problemi e conflitti molto simili si trovano in un altro microcosmo, quello dei sordi descritto da Oliver Sacks in "Vedere voci", con partecipazione ma anche con una certa semplificazione.
La terza questione generale che emerge amplificata dallo studio della piccola comunità è di natura filosofica, e costituisce probabilmente l'argomento centrale del libro. Si tratta del problema, caro ai sensisti e agli empiristi - ma in realtà a molte correnti filosofiche -, dei rapporti tra percezione e conoscenza e, nel caso specifico, di come un'alterazione della percezione influisce sulla conoscenza del mondo esterno e sui rapporti interpersonali. Non solo la vista è un senso particolarmente importante per l'orientamento spaziale, ma è stata posta al centro delle teorie della conoscenza attraverso una serie di metafore fondanti: prima fra tutte quella del "rispecchiamento", della mente come specchio della realtà. Già Diderot manifestò un interesse scientifico per le conseguenze della menomazione visiva sulle possibilità di conoscenza. Pur nella varietà delle posizioni, quali si espressero per esempio nel periodo positivista, emerge una corrente dominante che ha sostenuto in modo argomentato che i ciechi sono affetti da rigidità, astrattezza e verbalismo, tendono cioè a vedere i problemi in modo semplificato ma anche più nitido, formalmente più profondo, e tendono a sopravvalutare la capacità del linguaggio nel metterli a fuoco.
La propensione a trincerarsi nel sistema verbale sarebbe una conseguenza della limitazione "alle possibilità di controllo accomodatorio da parte del soggetto attraverso il ritorno sperimentale alla realtà". (Simili idee sulla mente dei ciechi, sulla loro capacità di raccontare delle storie, sul possesso di una visione interiore più limpida e profonda, hanno un'origine molto antica: si pensi a Omero e agli altri ciechi della mitologia; curiosamente, Sacks ricorda che l'atteggiamento verso i sordi è esattamente speculare, li si considera cioè troppo realisti, troppo "letterali").
In realtà, dimostra Fabio Levi, le modalità di conoscenza del cieco non possono essere definite in modo astratto prescindendo da un rapporto interattivo con i vedenti e le loro teorie sulla cecità: ne è una riprova il fatto che tali capacità si sono modificate a seconda delle principali tendenze pedagogiche espresse nell'istituto di Torino. "In un primo tempo era prevalsa la tendenza ad assecondare la propensione dei ciechi a procedere, nelle loro esplorazioni e nel loro modo di produrre concetti generali, dal basso verso l'alto e cioè dalle singole parti via via giustapposte le une alle altre fino ad arrivare al tutto. Nella seconda fase invece [dopo il '70] la diversa situazione aveva favorito un processo differente: il grande allargamento nel campo delle esperienze possibili, in assenza di un intenento pedagogico adeguato alla nuova situazione, aveva finito per costringere i ragazzi a subire un condizionamento non meno rigido del precedente: pur di poter dialogare con gli altri a proposito di un mondo sempre più difficile da tenere sotto controllo e senza d'altronde rendere evidente la propria condizione di grave difficoltà, essi non avevano potuto fare altro se non appellarsi ai poteri più ingannevoli della parola rimanendo prigionieri della sua connaturata distanza dalle cose" (p. 324). Detto in altri termini: nel periodo "autoritario" dell'istituto, una compensazione alla menomazione visiva veniva cercata dagli insegnanti in una ripetitiva esecuzione di gesti semplici che in modo progressivo e lineare consentisse ai ciechi di prendere possesso, per giustapposizione di frammenti successivi, del mondo circostante. Dopo il '70 la filosofia cambia: il mondo diventa più complesso i ciechi godono di una nuova libertà precedentemente insperata, si moltiplicano i rapporti dentro e fuori dell'istituto, ed entra in crisi il modello pedagogico autoritario dei piccoli passi successivi. Si potrebbe forse definire la prima concezione come "analitica" e la seconda come "olistica". Nessuno dei due modelli è in realtà dotato di una sua validità intrinseca a priori, n‚ può essere giustificato sulla base di una teoria fisiologica, psicologica e epistemologica. Piuttosto, ci fa vedere Levi, in un determinato periodo storico teoria generale, tendenze pedagogiche e autopercezione da parte dei ciechi tendono a convergere ed intrecciarsi, e non è facilmente districabile che cosa venga prima.
Il libro è ammirevole per la capacità di descrivere la piccola comunità con sguardo partecipato ma sempre equilibrato e poliedrico. A considerazioni teoriche di grande respiro si alternano notazioni minute e dettagli inattesi, talora commoventi ("Durante la mattina tuonava l'altoparlante: ragazzi! in piedi che parla il Duce!, e noi dovevamo alzarci in piedi che nessuno ti vedeva...". E che cosa si faceva la domenica? Si andava in fila per due a visitare una comunità di sordi!).

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Conosci l'autore

Fabio Levi

Dirige il Centro Internazionale di Studi Primo Levi. Per Einaudi ha curato, insieme a Domenico Scarpa, il libro di Primo Levi e Leonardo De Benedetti, Cosí fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986 e ha pubblicato Dialoghi (2019). Tra le altre sue pubblicazioni, La persecuzione antiebraica. Dal fascismo al dopoguerra; L'ebreo in oggetto. L'applicazione della normativa antiebraica a Torino 1938-1943; Dodici lezioni sugli ebrei in Europa. Dall'emancipazione alle soglie dello sterminio; tutti volumi pubblicati da Zamorani.

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