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crudo e a volte crudele come solo l'occhio può essere. qui non si fa credito. rivolta la lingua come un calzino e sulla pelle è ghiaccio che non scioglie e ferro rovente.
Queste poesie hanno un profilo crudele. La realtà emerge come sbalzata con un punteruolo o bulino, metallica. Sono poesie minerali, invernali, che molto somigliano alla geografia torinese che le abita e alle storie che ci vengono restituite per rapidi fotogrammi o, letteralmente, per formula chimica (una sezione s’intitola eloquentemente “precipitati”). L’occhio che osserva è lo strumento sensibile preponderante, Donalisio insiste sui dettagli visivi, sulla loro rilevante, “ingombrante” presenza, come diceva Cézanne delle proprie celebri mele, tanto da intestare al “guardare” e al “vedere” due capitoletti del libro. Scoprendoci così la reticente sensibilità di tutto questo scientifico apparato: e cioè il trapasso dal mero dato materiale al suo fantasma suscitato dall’intelletto e dal cuore, come dire, all’anima che è l’interpretazione. E allora notiamo come forse la cudeltà è pericolosamente vicina la suo contrario. E come questa voce apparentemente scanzonata, che gioca con le rime e con gli incipit che “fanno il verso” letterario a Dante o Montale, assuma una così ludica forma per tenere a bada il serraglio delle emozioni. Con un understatement così piemontese. Valeria Rossella
Miti Logiche è decisamente un libro di frontiera. Una frontiera come una riga in terra e come un giorno in cui iniziare e uno in cui finire. Granda, 1999-2006. Non a caso la seconda parte del libro vedere porta la seguente dedica a poche donne, e altrettanto pochi uomini che sanno dov’è la frontiera. Di frontiere ce ne sono tante in questo libro, quella della provincia polverosa di Mc Carthy, laggù a El Paso, quella della rivoluzione tra le lenzuola del Chelsea Hotel di Cohen, a New York e quella dello squartamento della parola di Caproni. Lungo il viaggio attraverso le 34 poesie di Miti Logiche, Fabio Donalisio, urla sottovoce che le cose sono atroci nella loro normalità. E lo fa scarnificando superbamente le parole, piantandole come spilli di acciaio lucidi e gelidi in una vodoo doll, giocando con il dètournement. L’esperienza personale e il contingente si aprono a una rivelazione simbolica con un significato preciso: la morte che siamo non la sappiamo e comunque andiamo. Questa morte senza testamento, nostra e altrui, il mondo senza dio, tutto ciò che ci è negato, attraverso i suoi occhi debordano in una parola: bellezza. Miti Logiche ci urla perché essere nati sia, di per sé, il grande inconveniente della vita. Perché fare almeno una rivoluzione lungo il suo corso sia l’unico dovere che abbiamo verso noi stessi.
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