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Anno edizione: 2022
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Un canto come ultimo rifugio, un canto per scampare alle sabbie, al fuoco, agli assalti dell’assurdo, alla morte. E quel verso che ritorna, come una preghiera e una maledizione: Il mio solo tormento.
Carta e matita erano vietate nel campo di concentramento fascista di El-Agheila, in Libia, nella Cirenaica sud-occidentale, sulla costa meridionale del Golfo della Sirte. I detenuti costretti a raggiungerlo percorrendo quattrocento chilometri a piedi nel calore estenuante del deserto erano donne e bambini, anziani e ragazzi. C’erano anche uomini valorosi, che avevano combattuto e resistito agli attacchi dell’aviazione, all’iprite, ai proiettili, alle bombe lanciate sui villaggi, alla mancanza d’acqua, ai pozzi soffocati col cemento, alla politica fascista di devastazione e sterminio. Fra loro c’era un poeta, Rajab Abuhweish che dietro il filo spinato, con sentinelle a ogni ingresso che sorvegliavano puntando le mitragliatrici, nella rovina e nella violenza, esiliato in patria, trincerato dietro la sua voce, compose a memoria un poema di trenta strofe e lo trasmise oralmente agli altri prigionieri, rafforzandone lo spirito di resistenza, come un’arma per sopravvivere, tracciando al contempo tutte le torture subite dal suo popolo.
Il 16 settembre 1931, Omar al-Mukhtar – la guida del movimento di resistenza armata delle tribù – era stato condannato da un tribunale fantoccio e impiccato pubblicamente nei pressi di Bengasi, le speranze di riconquistare la propria terra si erano estinte, e Rajab cantò con rabbia e angoscia il genocidio in Libia commesso dall’Italia fascista. Tra i prigionieri che ascoltarono c’era Ibrahim al-Ghomary, un uomo colto, che in seguito, sopravvissuto nel 1934 alla chiusura del campo di El-Agheila, trascrisse scrupolosamente il poema, giocando un ruolo fondamentale nella sua trasmissione.
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