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Autore chiave del cinema degli anni sessanta, Miklós Jancsó risulta forse oggi un nome oscuro o sconosciuto, anche per molti cinefili. Questo libro, preparato e perfezionato da lungo tempo, potrebbe apparire anacronistico, considerando che l'unica altra monografia italiana sul regista ungherese risale al 1974, quando venne pubblicato il Castoro scritto da Giovanni Buttafava. In realtà, il testo di Gambetti permette di contestualizzare meglio il percorso del regista (che, a dispetto dei suoi attuali ottantasette anni, ha diretto il suo ultimo film nel 2006), cogliendo non solo il ruolo preminente nel cinema ungherese e nella stagione delle varie nouvelles vagues, ma anche la complessità culturale di un cinema sempre attento alla dialettica tra i processi della storia e le dinamiche del quotidiano, come ben suggerisce il sottotitolo del libro.
Per Gambetti, l'opera jancsiana appare sempre coerente con l'idea dello stesso regista, per cui il cinema migliore non deve interrogarsi sulla sua valenza artistica in modo autoreferenziale o secondo paradigmi predefiniti in senso politico o accademico; piuttosto, deve preoccuparsi di essere sempre specchio e contemporaneamente interpretazione e arricchimento della società in cui si vive: il cinema è parte integrante della storia e della cultura.
In questo senso, i film più famosi del regista magiaro riescono a intrecciare l'attenzione tematica verso la storia con un atteggiamento mai distaccato nei confronti delle lotte sociali e dei destini individuali dei personaggi, come accade nella celeberrima trilogia composta da I disperati di Sándor (1965), L'armata a cavallo (1967) e Silenzio e grido (1968). Film che colpirono la critica non solo per il loro aspetto tematico, ma anche per una rielaborazione stilistica di grande fascino, con i celeberrimi piani-sequenza e l'impatto di un bianco e nero molto elaborato, che traducevano stilisticamente l'attenzione verso aspetti quali l'etnografia, il costume popolare, la musica, l'arte figurativa, il teatro.
Attivo anche in Italia negli anni settanta, Jancsó ha sempre utilizzato la storia come riferimento chiave per riflettere non solo sul passato, ma pure sulle contraddizioni del presente. Ciò emerge bene dall'analisi di Gambetti e dalla lunga conversazione-intervista che l'autore ha intrattenuto con il regista nel corso degli anni, qui pubblicata come parte centrale del libro. A corredo di un'opera molto documentata, figurano un saggio specifico sul rapporto tra i film di Jancsó e la storia ungherese e differenti contributi di critici magiari e collaboratori del regista, che permettono di cogliere la coerenza di un percorso che, fino alle ultime opere, che oscillano tra la dissacrazione e la tragicità, ha sempre utilizzato il cinema come occasione per riflettere sulle contraddizioni del proprio tempo.
Michele Marangi
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