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"Penso che non esista gioia o intelligenza che non siano basate sulla verità. Per me non c'è nulla di bello nella cecità, nella felicità della gente che rifiuta di accettare la realtà. La gioia dovrebbe essere coraggiosa, dovrebbe avere le gambe forti della verità, non una base gelatinosa di sogni e desideri". Le "gambe forti della verità", insieme all'incanto di una prosa ironica, nera a tratti, singolare come sanno esserlo certe scritture per l'infanzia, rappresenta l'attrattiva maggiore di questo romanzo di Dawn Powell. Un memoir parzialmente autobiografico, che riporta alla mente Dickens e Hawthorne (e più in generale, la narratività ottocentesca, dato che la nascita di questa scrittrice americana recentemente riscoperta rimonta al 1896) con le loro storie di povertà, marginalità ed esclusione, ma più ancora il genere della favola nera e crudele. Di questo genere La mia casa è lontana ha proprio tutti gli ingredienti: dalla morte della madre alla cattiveria della matrigna, compresi i rovesci finanziari di un padre affascinante ma irresponsabile, l'indifferenza dei parenti, il rifugiarsi da parte della voce narrante infantile, ma già terribilmente consapevole, in un universo di storie per sfuggire agli orrori di un'infanzia sanguinosa che non vuole decidersi a finire (esemplare la descrizione della scoperta da parte di Marcia, in cui non fatichiamo a riconoscere i tratti della futura scrittrice, di un suo doppio insensibile al lutto e alle punizioni fisiche, come pure le sue folgoranti scoperte della morte, dell'abbandono, dell'ingiustizia). Valga come esempio più brillante l'incipit, con il senso di minaccia annidato nell'uomo della mongolfiera e con quella sorta di peccato originario che è l'abbandono della casa per trasferirsi in una più grande: il regesto degli oggetti perduti è un vero campionario della nostalgia, in un universo infantile che non può più permettersi di guardare indietro.
Marilena Renda
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