Poesia di memoria e testimonianza storica quella di Hans Sahl, qui raccolta in edizione integrale con testo a fronte. Un'impresa ardua, in particolare per i testi in rima, affrontata con instancabile devozione da Nadia Centorbi, e corredata da un acuto saggio introduttivo e da un ampio apparato bibliografico. Il corposo volume consente al pubblico l'accesso a un autore ignoto in Italia, se non per le memorie pubblicate da Sellerio (L'esilionell'esilio, 1995). Anche l'opera poetica di Sahl ha un taglio autobiografico. Nato nel 1902 a Dresda da una famiglia ebraica assimilata, giornalista di sinistra e critico d'arte, l'autore emigra nel 1933 a Praga e successivamente a Parigi, dove lo coglie la guerra. Perso il passaporto sotto le bombe, ha inizio l'odissea di un uomo in fuga dalle truppe naziste, prima nel sud della Francia, poi verso gli Stati Uniti. I versi disegnano una vera e propria cartografia dell'esilio. A Parigi "col sacco di cenci sulle spalle", a dover scegliere "tra un francobollo e un pezzo di pane". Fame e solitudine di un internato, ratti e filo spinato in quello stesso lager francese che l'autore, c'informa Centorbi, condivide con Benjamin. Sfilano nella scrittura corale di Sahl una "fanteria" di intellettuali stremati, attorniati da falsari e poliziotti. È la desolazione degli esuli in fuga che conosciamo dalla prosa coeva di Anna Seghers, qui condensata nella metrica di rapidi squarci aperti su una Marsiglia affollata di spettri in attesa estenuante di un visto d'espatrio, l'occhio attonito alle navi ancorate nella baia. Riesce a imbarcarsi, Hans Sahl, nella primavera del 1941 alla volta di New York. Con gli anni la poesia si fa più scabra e concisa, d'impianto brechtiano, anche se dal poeta comunista e compagno d'esilio lo divide il solco di un diverso giudizio su "l'uomo del Cremlino": una divergenza efficacemente protocollata dal poeta, avverso a Stalin e incline a un socialismo umanitario alla Silone, in un testo del 1944. Contro la tesi di Adorno, è alla poesia che l'esule aggrappa dopo Auschwitz la sua testimonianza. Variegata come un lembo di terra, la versificazione tenta diverse strade, anche sperimentali. Una voce discontinua, se si vuole, ma capace di restituirci tutto lo sconforto del profugo: un'identità garantita solo dai registri portuali statunitensi; un sopravvissuto, sì, ma nella "terra di nessuno", costretto a "occultare il pensiero in molte lingue", nel "vento corrotto" di una New York che odora "d'assassinio e stupro". Vibra la nostalgia fonda per i fidati suoni domestici dell'infanzia. Con "l'orecchio al muro", l'io capta voci lontane, "come se qualcuno cercasse una stanza che non c'era". Intermittente nella memoria balena Berlino, la città ribelle della giovinezza "avida di vita", "sprofondata nella penombra degli anni". Nei passi di un "figliol prodigo" Sahl immagina il ritorno nella Germania del dopoguerra. Ma i tedeschi siedono "in camere di piombo" e "gli assassini di ieri sono i santi patroni della Storia". All'apatride non resta che camminare coi suoi versi sulle ossa del ricordo. Fino al 1989, quando Sahl rientra a Tubinga. Dopo cinquantasei anni di esilio, l'anziano poeta ascolta appartato le nuove voci tedesche, come una talpa "nel regno dei lombrichi", "scavando, graffiando, rovistando / cieco nell'abbacinante / chiarore del / non ancora". Anno 1991, il blochiano "noch nicht" del Principio speranza riaffiora da una terra riunificata, che al reduce sul ciglio dell'addio appare "germoglio, speranza, presagio". Anna Chiarloni
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