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Nelle società agrarie subire uno stupro significava solitamente la perdita dell'onorabilità e, per le donne ancora nubili, la quasi impossibilità di sposarsi con una persona diversa da quella dello stupratore. La ricerca del matrimonio riparatore era del resto la strategia sociale cui abitualmente si affidava le famiglia della vittima per evitare che questa, ribaltatasi la violenza subita in una colpa commessa, non cadesse nella più totale emarginazione, cui non di rado seguiva la "scelta" della prostituzione. Non sempre però le donne accettavano un simile compromesso. Spesso cercavano di recuperare la dignità personale denunciando il proprio stupratore, ed esponendosi così al rischio di compromettere ulteriormente, con un pubblico processo, la propria posizione nella comunità. È proprio per verificare l'evoluzione nel comportamento delle donne vittime di violenza sessuale, in un contesto caratterizzato dalla relativa impermeabilità della società agricola tradizionale, che Ezio Ciconte ha analizzato gli atti giudiziari relativi ai circa duemila casi di stupro discussi nei tribunali calabresi dal 1814 al 1975. Oltre che sulle reazioni delle donne vittime delle violenze e dei loro famigliari, questa indagine ci restituisce importanti informazioni sulla mentalità degli stessi stupratori e su quella dei magistrati chiamati a giudicarli. Si viene così a conoscenza di una realtà più sfaccettata di quanto facili stereotipi potrebbero suggerire. Pur persistendo infatti, in una società tipicamente patriarcale, una diffusa mentalità maschilista - condivisa spesso anche dai giudici -, si fa comunque strada una pluralità di atteggiamenti diversi. Grazie a questi ultimi si produce, anche se assai lentamente, il cambiamento sociale. La soggettività delle donne, tuttavia, incontra nella mentalità collettiva più di una oscurantistica resistenza. Ne consegue l'arretratezza della stessa legislazione.
Cesare Panizza
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