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Il legame tra economia e religione si è tradotto spesso in rapporto di subordinazione della seconda alla prima, come nel paradigma marxiano, oppure in una derivazione, come quella dell’economia capitalistica dall’etica protestante, secondo il paradigma weberiano. L’analisi che, invece, in queste pagine viene condotta va ben oltre il semplice rapporto di dipendenza e subordinazione e vede le religioni come complessi teorici e morali suscettibili di analisi economica. Si tratta di una prospettiva che ha avuto già grande successo oltreoceano con la teoria dell’economia della religione e le pubblicazioni, velatamente apologetiche, di Rodney Stark e che Simonnot conduce autonomamente sulla scorta di una bibliografia grossomodo francese. L’operazione risulta assolutamente interessante, non solo perché contribuisce a rigettare il presupposto della secolarizzazione, affermato tanto da Marx quanto da Weber e oggi largamente rigettato, ma soprattutto perché consente di operare un lavoro euristico in relazione alla sociologia delle religioni per scoprire il meccanismo sotteso ai movimenti religiosi che risultano vittoriosi all’interno di un contesto pluralistico, come quello che oggi ci troviamo a vivere. L’analisi dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam alla luce delle nozioni di monopolio, concorrenza, patrimonio, effetto rete, natura e appetibilità dei beni, non solo può essere estesa anche ad altri complessi religiosi in relazione agli Stati in cui si sono manifestate, ma può aiutarci anche a gettare uno sguardo al futuro del vasto panorama religioso contemporaneo.
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Tra le varie scienze delle religioni, esiste un'economia della/e religione/i che, dopo illustri esordi settecenteschi, non ha avuto una tradizione solida e continua, ma che potrebbe diventare la scienza religiosa del terzo millennio. La riflessione economica sulla religione più famosa degli ultimi tempi è senza dubbio il paradigma di Peter Berger del supermarket delle fedi, in cui il meccanismo di libera concorrenza, tipico di un regime di pluralismo, scaturisce dalla presenza di differenti merci religiose, il cui prezzo è regolato dall'andamento del mercato. Il consumatore di beni religiosi ne determina il successo, ne stimola la produzione e l'adattabilità al mercato, che via via assume nuove forme secondo la legge della domanda e dell'offerta.
L'ottica del saggio di Simonnot, giornalista economico e direttore dell'"Observatoire des religions", è molto diversa: lasciata la situazione contemporanea in secondo piano, la sua analisi è diacronica. L'autore prende in considerazione gli sviluppi storici dei tre grandi monoteismi e offre una prospettiva interna al soggetto-religione (e non oggetto, in quanto bene di consumo): è la religione capace di creare un monopolio nel corso della sua storia terrena la protagonista delle pagine di questo libro. L'obiettivo di Simonnot è leggere e interpretare l'evoluzione dei monoteismi con gli strumenti della scienza economica, a partire dall'accordo commerciale intercorso tra Dio e Abramo (da cui derivò la nascita del concetto di Terra Promessa), e comprendere quanto i meccanismi di funzionamento delle religioni dipendano da schemi economici. Ogni monoteismo tende alla distruzione della concorrenza sul mercato delle religioni, cosa che implica la fede in un dio unico, esclusivo e diverso da quello degli altri, e quello ebraico costituisce una sorta di paradigma, basti pensare alla ricchezza del tempio di Gerusalemme. Rinnovando un tale modello economico, nella storia del cristianesimo la legislazione canonica introduce strumenti quali il divieto di adozione, la limitazione dei matrimoni tra lontani consanguinei e l'istituzione di orfanotrofi, che favoriscono il trasferimento di enormi risorse economiche alla chiesa stessa: secondo l'autore, si tratta di meccanismi di monetizzazione di regole e valori religiosi.
L'economia dell'islam è trattata più brevemente: l'accento è posto soprattutto sulla ricerca delle ragioni della sua ascesa e sull'importanza del califfato come un punto unificante. Anche in questo caso una decima imposta ai fedeli, la zakat, sotto la veste di un'elemosina rituale, è ciò che consente la gestione di cospicue somme di denaro per fini religiosi.
Citato all'inizio, ma sullo sfondo di tutto il libro vi è il pensiero di Adam Smith, ampiamente ripreso nelle conclusioni, secondo cui il prezzo del prodotto è più elevato e la sua qualità minore se non c'è concorrenza religiosa: ogni monopolio, sia pure religioso, ha dunque bisogno dello stato, dell'autorità pubblica di cui appropria o a cui si appoggia per conservarsi. Tuttavia, uno degli effetti collaterali è che il monopolio crea le condizioni di una cattiva offerta, di un impoverimento della qualità, provocando un indebolimento e le condizioni del suo stesso declino. In altri termini, una volta esclusa la concorrenza, la religione aumenta i prezzi dei suoi prodotti, sebbene la qualità dei suoi servizi si riduca spesso. Ed è questa la riflessione con cui l'autore arriva ai giorni nostri, giungendo ad accettare metodologicamente la metafora del mercato e chiedendosi se, dopo una storia di monopoli religiosi, potrebbe costituire una svolta ed essere benefica la concorrenza delle religioni. Dopo avere affrontato i rischi annessi a tale prospettiva (ad esempio il moltiplicarsi delle sette), la risposta è affermativa, ma anche molto lontana dal realizzarsi; in questo si segna la distanza, inconciliabile, con il modello della libera concorrenza: tra monopoli persistenti religiosi e una finta laicità/neutralità dello stato, la possibilità che si realizzi de facto una situazione di concorrenza e scambio è quasi impossibile, almeno per il momento.
Mariachiara Giorda
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