C'è un grande prosatore (postumo) che da più di vent'anni l'editoria italiana affida ai lettori robusti, a quelli a proprio agio con zibaldoni e libri di memoria, capaci di diramarsi in plurime direzioni, dalla nota intima a quella politica, all'osservazione di costume, alla citazione e alla fulminante battuta. Si tratta di Giovanni Ansaldo (Genova 1895 - Napoli 1969), il celebre giornalista genovese, collaboratore di Gobetti e fiero antifascista, poi clamorosamente passato al Regime negli anni trenta, uomo di Ciano e direttore del "Telegrafo", infine, dopo anni a coatto riposo, a lungo direttore del "Mattino" napoletano. Grazie alle cure editoriali del figlio Gianbattista e di Giuseppe Marcenaro (qui autore della Prefazione) sono usciti più di una ventina di libri, che raccolgono suoi elzeviri o pubblicano le inedite scritture diaristiche, e ci hanno costruito anche il profilo di un impareggiabile prosatore. Ora a completamento a ritroso del diario, possiamo leggere il primo cruciale decennio della sua attività: un ricco corpus di pagine inedite, in cui l'estensore a più riprese ha incollato ritagli stampati coevi e missive, mentre il curatore ha ulteriormente allegato una serie di lettere inedite (di Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Carlo Rosselli, ecc.), a chiarimento di passi della corrente nota di diario. Assistiamo in diretta dal marzo 1920 alle convulsioni e all'agonia dello stato liberale, con significative notizie e riflessioni nello snodo 1922-25; per tutte vale la duplice profezia, scritta il 29 ottobre 1922: "Conseguenza logica possibile: Mussolini presidente, Mussolini dittatore, Mussolini che fa la guerra per distrarre l'attenzione dalle questioni interne, sconfitta, straniero, vendette, pace, ristabilimento Umberto II. Ecco la parabola. Oppure. Mussolini prepara il colpo di stato per sé. Il Re e l'esercito fanno pronunciamento e liquidano Mussolini. Alta Corte di Giustizia, quod est in votis". Ansaldo capisce il tempo nuovo della società di massa, uscita dal "massacro" della guerra e la conseguente nuova arma della comunicazione, che Mussolini padroneggia ben diversamente dai suoi prediletti liberali, da Giolitti ad Amendola; lo irrita anche il semplicismo dei vecchi socialisti, alla Giuseppe Canepa, suo interlocutore al "Lavoro", il quotidiano genovese dove avvia la sua carriera. Il giovane Ansaldo, lettore di Weber quanto di de Maistre, è un conservatore e uomo d'ordine, diffidente verso la rivoluzione e il fascismo sovversivo e squadrista, sempre più orientato nel procedere degli anni a rivedere la bontà del processo risorgimentale e il suo nefasto concrescere di illusioni e illusionismi (la crudeltà della "religione della Patria"). Gli omaggi a Solaro della Margarita e a Maria Sofia, l'ultima regina di Napoli, visitata ottuagenaria a Monaco, ne sono il segno. Deluso dal "cuore arido" del Re, né dà un memorabile ritratto in lacrime alla camera ardente del generale Diaz; e qui va segnalata la forza icastica del suo ritrarre, di pretta derivazione francese, tra Sainte-Beuve e Chateaubriand, ma con un fondo amaro, sulla scia di una lettura nichilistica del Chisciotte. A tale incrocio nasce la sua prosa, vibrata da citazioni e rimandi storici, sempre pronti a corto circuiti, per cui la parabola si infiamma in nota sarcastica e culmina in feroci sigle: il superomismo wagnero-dannunziano è uno "stare ad origliare al proprio cervello per coglierne tutti gli scricchiolii"; "Facta piemontese, giolittiano e porta i baffi. Non si conoscono altre sue virtù"; Ingres: "nudità fasciata come in un preservativo". Da uomo d'ordine anche in letteratura non gli piace l'avanguardia, ma la sua tradizione non sarà quella dell'epigono, quanto della reinvenzione (non a caso simpatizzerà per Ungaretti negli anni trenta), perché egli è da un lato pienamente consapevole della frattura se non del baratro della modernità (la prima guerra insegna), dall'altro pervicacemente rivendica una grande identità borghese, consapevolmente donchisciottesca. Stefano Verdino
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