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Il secondo romanzo di Elisabetta Cipriani "Memorie di una casa viva" ci porta nel mondo della scuola, un mondo a lei molto caro poiché è insegnante. L' autrice si ispira al libro "Memorie di una casa di morti" dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij, che considera una sorta di maestro e " interlocutore". Il romanzo di Dostoevskij tratta della sua esperienza da prigioniero in Siberia, mentre quello di Cipriani parla di libertà nonostante l' oppressione. Il libro ha un messaggio forte: «quasi quello di un naufrago in una bottiglia, di coraggio e fiducia nella vita nonostante i suoi drammi», come afferma la stessa autrice. La storia è ambientata in un futuro non molto lontano in cui la tecnologia ha preso il sopravvento sugli uomini, dove l'essere umano si spinge a fare rivolte spesso insensate. In questo contesto, però, c'è un'insegnante, Ilaria Folli, che non smette di credere nei propri alunni. Li invita a scuola per un ripasso generale in vista degli esami, ma si presentano solo quattro studenti. Dalla domanda di Ilaria: «Nessuno ha delle storie da raccontare?» scaturisce lo stimolo alla narrazione di vicende diverse fra loro, ma accomunate dalla sete d’amore. Chi incapace di esprimerne è tentato dal suicidio; chi vive in un regime dove si praticano aborti forzati e cerca disperatamente di salvare la vita del figlio che ha in grembo; chi lotta per amore della libertà, come il ragazzo di Piazza Tienanmen; chi è caduto nell' anoressia e ha bisogno di non essere abbandonato. È proprio questo che ha spinto Elisabetta Cipriani a scrivere: suscitare empatia per la vita nonostante il suo dolore.
Ho già avuto la sfortuna di leggere un altro libro della stessa scribacchina, “I temerari” titolo che pareva quello di un libro di Moresco, e che invece nascondeva solo un altro maldestro tentativo di giocare a fare il finto scrittore perennemente esordiente e nutrire il proprio ego con i quindici minuti di applausi di parenti e amici. Ho voluto ritentare con questo, che se non altro è più breve e quindi fa passare in fretta la rabbia di leggere frasi che riescono a essere al tempo stesso sciatte e pretenziose. Ne sono uscita confusa, irritata, quasi sdegnata e infastidita dalla pesantezza della presunzione che trasuda da ogni pagina, frase o parola. Certi aspiranti scrittori dovrebbero spendere un po’ più tempo a leggere (e capire) i libri che non sono in grado di scrivere e maturare la consapevolezza che dei propri limiti. Qui si parte citando Dostoevskij nel titolo, ma nella sostanza c’è solo un altro insopportabile flusso di vaniloqui cattolicheggianti, pruriginosamente perbenisti e prevedibili quanto basta per passare silenziosi e dimenticati.
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