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Margaret Mead. Quando l’antropologo è una donna edito da Clichy nella collana Sorbonne e curato da Silvia Lelli, docente di Antropologia all’Università di Firenze è l’ennesimo gioiellino di questa collana che spero abbia più eco tra noi lettori. La figura che ci propone Silvia Lelli è quella di Margaret Mead anche essa antropologia che incentrò i suoi studi attraverso la ricerca etnografica – innovandone anche gli strumenti e le applicazioni – sulla cultura e sulla personalità, per poi occuparsi di studi di genere. Riporto due stralci che ben racchiudono la sua opera e il suo pensiero innovatore: «È sempre più chiaro che se valori, pratiche e rapporti tra i sessi variano da una cultura all’altra non si tratta di ‘dati naturali innati, divini e immutabili’ ma di ‘costruzioni culturali’ e, in quanto tali, modificabili. Qui sta il punto cruciale: Mead porta il discorso sulla possibile trasformazione dei rapporti fra i sessi dal piano ideologico a quello scientifico, rafforzandone la portata politica. In molti ambienti queste novità sono accolte e sviluppate, ma in altri si cerca di confutarle, perché contrarie ai dettami religiosi dominanti, al perbenismo, all’educazione corrente. Fanno bene i conservatori a preoccuparsi, perché questo è il primo lavoro sistematico sulle differenze sessuali in scienze sociali e prelude a una svolta dopo la quale non sarà facile tornare indietro. Da questi studi partono le riflessioni delle studiose femministe che svilupperanno nuovi concetti analitici di ‘sesso sociale’ e di ‘genere’. Caduta la ‘maschera di naturalità’ che legittimava l’impossibilità del cambiamento, le strutture sociali dei poteri, quelle del sessismo come del razzismo, d’ora in poi non sono più auto-legittimate e si dovranno quantomeno negoziare».
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