Due guerre, due donne, due uomini e, soprattutto, due tempi d'Europa paralleli e speculari: è molto più di un noir questo Il mare perché scorre di Livio Romano, che, con la sua ormai corposa produzione, ci ha abituati a escursioni dal romanzo (vedi Mistandivò, esordio einaudiano del 2001 o Niente da ridere, uscito per Marsilio nel 2007) al reportage narrativo (Porto di mare, Sironi, 2002 o Dove non suonano più i fucili, Big Sur, 2005, viaggio in Bosnia, premessa a questo nuovo romanzo). E, in effetti, lo sguardo del reportage non abbandona mai il lettore in Il mare perché scorre, narrazione intrecciata di luoghi, di suoni, di sapori tutti confinanti l'Italia ma che l'Italia non osserva mai, le spalle volte all'Adriatico, come se l'Est a noi prossimo non esistesse. Spalle rivolte contro luoghi percorsi dal dolore e dalla guerra ma anche contro la Storia, poiché il passato recente e il presente invisibile che ci circondano sono oggi davvero una terra straniera. Dunque, i due protagonisti: entrambi si chiamano Piero, ma uno ha solo quarantasei anni, l'altro ne ha quasi il doppio, ottantadue. Sono in fuga e insieme inseguono l'amore: un biondissimo medico bosniaco per il primo Piero, Helena, e Nela, ebrea sefardita scampata al nazismo e rifugiata in Salento, per il secondo Piero. Il primo Piero ha traversato il mare per approdare a Mostar (una "città fore da capu", dove convivono religioni, stili di vita etnie diversissimi) e Dubrovnik, sulle orme di un giovane soldato italiano, ma, appunto, finisce con l'innamorarsi della sfuggente Helena. Il secondo Piero ha già compiuto il suo inseguimento e ora insegue solo se stesso. Si intrecciano a questi viaggi effetti inquietanti di storia recente, le Br, giovani morti. Sia pure con la sua lingua lineare e leggera, Romano racconta di tempi incrociati, di irrisolti pregiudizi, di modalità di dire il mondo che contraddicono le consuetudini italiane alla semplificazione e fanno deragliare i treni dei luoghi comuni. I due Piero si ritrovano per caso a condividere la stessa auto e a fare insieme un viaggio ai confini della realtà, dove le donne (e non solo loro) non si comportano come previsto. Insomma, il romanzo italo-bosniaco di Romano sembra usare il filtro del luogo vicino e speculare uno specchio deforme, che rivela i difetti di chi si specchia − per parlare soprattutto dell'Italia. Di chi siamo diventati. Ad esempio, il giovane Piero porterebbe volentieri via con sé Helena in Salento (è così vicina la Bosnia, in fondo) ma: "Di primo acchito, a Piero venne naturale pensare che lei non avrebbe mai più dovuto lavorare, che avrebbero ristrutturato la casa, e ne sarebbe stata la regina mentre lui avrebbe aperto un lussuoso emporio a Lecce e avrebbero fatto tre figli e sarebbero stati felici insieme fino alla fine dei giorni. Ma si trattenne. Da quel po' che conosceva, intuiva che per Helena mantenersi da sé e realizzarsi nella professione erano principi irrinunciabili. Gli ricordava le ragazze della sua generazione, le alternative in eskimo degli anni settanta. Coloro le quali, adesso, abdicata l'idiosincrasia per il reggiseno e gli aforismi letti nel Libretto Rosso, e raggiunta l'agognata posizione di dottoresse, se ne andavano girando in fuoristrada Toyota bardate di pelle rossa e con le facce martoriate dai filler e dal botulino. Le ragazze italiane di ventisei anni, al contrario di Helena, per quanto ne sapeva Piero, sarebbero state ben contente di progettare un futuro di casalinghe agiate". E i due Piero che parlano si raccontano, appunto, un'Italia inaspettata e diversa, specie agli occhi del più giovane, dove, negli anni settanta, si gioca a basket a Galatina, di due generazioni a confronto che però hanno in comune una vocazione alla fuga, alla diserzione materiale e morale, che risalgono una brumosa Italia del Nord ma rievocano luoghi esotici (o ogni passato è per sua stessa natura esotico?). I due Piero cercano il mondo ma fuggono soprattutto da una periferia di cui si sentono prigionieri: quando il vecchio Piero viene a sapere che Nela e altri ebrei scampati ai lager e diretti in Palestina sono raccolti in una località salentina si rianima, pensa che qualcosa sta finalmente succedendo: "Sentivo che il mondo stava passando anche da noi". L'on the road poi si scioglie in successive scoperte, in rivelazioni e delusioni, ma quel che conta è avvenuto: le troppe anime d'Italia si sono confrontate e interrogate su cosa sia, poi, alla fine, cambiare e fare una rivoluzione, cosa siano, ancora, le ideologie e che modello di realtà si possa costruire. Restano, naturalmente, gli individui, più che le idee, messi in luce da un registro a volte teatrale, con didascalie fra parentesi, fitti dialoghi, a volte cinematografici: le panoramiche di luoghi, odori e cibi sono forse l'elemento che più resta impresso una volta chiuso il libro, come a sottolineare uno struggimento, una fame di vita inesauribile, che fa i conti con gli errori storici e personali ma non si estingue mai. Antonella Cilento
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