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La sezione "Voci della critica" in questa pagina contiene già tutte le informazioni più importanti sul libro. Senza che a qualcuno in particolare interessi, posso però provare a darne un'impressione personale. Ho preferito la prima parte del libro alla seconda, benché la seconda sia di più facile e scorrevole lettura (la cronaca del disagio quotidiano di vari personaggi e, soprattutto, delle loro relazioni reciproche). La prima parte del libro annichilisce; chi parla in essa non ha altro da dire se non la sua propria incongruenza rispetto all'ambiente in cui lavora e in cui vive, l'assoluto abbandono al riflesso interno, scarnificato, della relazione con il cliente, con la merce, con il supervisore. E, leggendo, salvo riserve positiviste, ciò che si pensa è spesso: "bro, relatable". Ottima la traduzione e la postfazione di Laura Scarabelli.
Recensioni
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Del capitalismo ci sembra di sapere tutto, è uno di quelli argomenti di cui si parla così tanto da essere ormai ricoperti da una coltre di luoghi comuni o, peggio, di assurdità pronunciate con sicumera da pseudo-intellettuali televisivi. Essere retorici trattando questo tema è facilissimo, risultare originali quasi impossibile. Eppure con il suo Manodopera (uscito in lingua originale nel 2002 e pubblicato quest’anno da Alessandro Polidoro Editore, con la traduzione di Laura Scarabelli) la scrittrice cilena Diamela Eltit riesce sorprendentemente a rivitalizzare l’argomento, con uno stile e una forma molto personali. Si tratta di un romanzo dalla struttura bipartita che racconta il “non-luogo” supermercato, analizzando gli effetti del capitalismo sui corpi, le menti e le relazioni umane.
Nella prima parte un inserviente del supermercato racconta in prima persona l’esperienza di un lavoro che annienta, fatto di clienti aggressivi e turni massacranti sotto gli occhi orwelliani dei “supervisori”, entità dall’aura semidivina che controllano il lavoro degli impiegati, decidendone il destino. La voce narrante è anonima: non sappiamo niente della persona che parla, e difatti ciò che essa racconta è un processo di nullificazione del sé. Il lavoro reifica il soggetto perché sfinisce il corpo e ne ottunde le potenzialità sensoriali, lo priva della sua naturale vitalità, rendendolo inerte come fosse cosa inorganica.
L’analisi del narratore ha quasi toni da Meditazioni cartesiane: egli analizza con perizia e rigore i modi in cui questo mondo assurdo determina il suo Io; ma mentre Cartesio cercava il nocciolo di sé negando le cose e dubitando della loro esistenza, l’inserviente riconosce che l’unica realtà possibile è quella delle merci che lo circondano, mentre nella sua interiorità vede un abisso. A differenza del filosofo (che si scopriva soggetto), la voce narrante è immersa ‹‹in un viaggio di sola andata›› da sé stessa, attraverso cui scopre di essere un ‹‹oggetto neutro››, una presenza indifferente che fa parte integrante dell’arredo del supermercato, identificata da un cartellino come fosse un’etichetta.
Nel supermercato non solo gli oggetti fagocitano i soggetti, ma acquistano proprietà divine: in questo tempio pagano i clienti con la loro voracità non fanno che consacrare una merce che è degna di venerazione: ‹‹Toccano i prodotti come se pregassero Dio. Li accarezzano con devozione fanatica››[1]. I loro maltrattamenti sull’inserviente sono una forma di flagellazione a cui questi si presta con la mitezza di un asceta. Egli esercita infatti una ‹‹mistica infetta›› lavorando per ventiquattr’ore consecutive e sconvolgendo così il ritmo naturale della vita, che vede persino la divinità riposarsi dopo sei giorni di fatiche. Al Dio creatore si sostituisce così un ‹‹insignificante Dio di plastica››, immerso tra i suoni delle campane elettroniche che a Natale invadono ossessivamente il supermercato.
La seconda parte del libro è molto diversa eppure speculare rispetto alla prima: ad un’analisi “interna” del lavoro Eltit fa seguire il racconto delle sue dinamiche “esterne”, cioè di come la logica capitalistica plasma le relazioni tra persone. Dall’Io narrante si passa a un generico “noi” che racconta la vita in una casa i cui inquilini sono dipendenti del supermercato: i commessi Enrique e Alberto, Isabel la promoter, l’imbustatore Gabriel, l’addetto alla sicurezza Pedro, l’impiegata alla macelleria Sonia. Questi personaggi sono espressione di una disperata condizione di precarietà: essi vivono sotto la minaccia perenne del licenziamento. Attraverso performance sempre perfette cercano a tutti i costi di non essere sostituiti dalla miriade di disoccupati che stazionano in fila davanti al supermercato alla ricerca di un posto.
Il “noi narrante” fa spesso riferimento ad un affetto che lega i componenti della casa, sentimento che però non rintracciamo mai: l’abitazione infatti non è che una succursale del supermercato, ne riproduce le medesime dinamiche di odio e di lotta per la sopravvivenza. Eltit dipinge questa atmosfera cannibalistica descrivendo gli odori putrescenti, le secrezioni del corpo, il sangue e la saliva in particolare, che appare come una bava famelica sulle labbra dei personaggi. Parliamo però di una lotta a perdere: nonostante il lavoro continuo e la dedizione assoluta, i protagonisti si ritrovano in continue ristrettezze, tanto da finire senza acqua, luce e gas. Non resta loro che il turpiloquio contro una società che gode nell’espropriare il poco che si è conquistato.
Nonostante la loro rabbia nei confronti del sistema-supermercato, i nostri personaggi non appaiono mai fuori dalla sua logica, ma ne sono anzi inglobati. Eltit mantiene sempre uno sguardo lucido e non sembra mai prendere veramente la loro parte nella narrazione. Questa cruda analiticità non depotenzia Manodopera della sua carica politica, ma rende invece il suo discorso più complesso e stratificato. La scrittrice non scade nella propaganda illusoria di cui spesso si fa promotore chi affronta questo genere di argomenti, ma con i suoi personaggi racconta una disfatta storica. La storia del Cile è infatti quella di un curioso rovesciamento: dall’essere la speranza dei lavoratori con Salvador Allende è finito per diventare il paese più liberista al mondo, nel quale tutto ha un prezzo e in cui non esiste nulla di diritto.
Questa dimensione storico-politica di Manodopera è riscontrabile nei titoli delle due sezioni (Il risveglio dei lavoratori e Puro Cile), così come in quelli dei capitoli della prima parte. Nella nota critica la traduttrice Laura Scarabelli fa presente come essi rimandano a nomi di riviste clandestine per la lotta di classe, di cui Eltit indica anche la data e il luogo di prima pubblicazione. Viene così delineandosi una sorta di “cronologia del fallimento”, quasi una rappresentazione dell’ironia della Storia. Non è un caso se ad esergo del libro è posta una citazione della poetessa argentina Sandra Cornejo, che con tono bruciante afferma: ‹‹Qualche volta, per un istante, la storia dovrebbe provare compassione e metterci in guardia››.
Recensione di Giacomo De Rinaldi
«Io scrivo libri e i miei libri non hanno bisogno di me, hanno bisogno degli altri, in quell’incontro casuale che distingue la lettura». Parole di Diamela Eltit, una delle maggiori scrittrici cilene viventi, pronunciate nel declinare l’invito al Salone di Torino. Far parte della delegazione cilena, per lei ”ontologicamente” oppositrice della destra al governo all’epoca del fatto, la stessa destra in passato connivente con il regime di Pinochet, avrebbe significato farsi indirettamente portavoce, come rappresentante nazionale, di una parte politica dalla quale rivendicava le distanze. Era il 2013. L’editrice Atmosphere libri tentava di introdurre al pubblico italiano Diamela Eltit con il romanzo Imposta alla carne, tradotto da Natalia Cancellieri. Un esperimento poco fruttifero ai fine del guadagno di notorietà. Eltit rimase purtroppo un’autrice misconosciuta. A ritentare la mediazione tra lei e i lettori, ad assumersi nuovamente l’onere di conciliare l’incontro auspicato, sette anni dopo, è Polidoro editore, che porta nelle librerie Manodopera (168 pagine, 16 euro), tradotto da Laura Scarabelli.
Diamela Eltit, nata a Santiago del Cile nel 1949, una vita dedicata alle lettere, è stata docente di castigliano, per un breve periodo addetta culturale presso l’ambasciata cilena a Città del Messico, ed è saggista e scrittrice. Ha vissuto gli anni bui della dittatura rintanata in quello che definisce “inxilio”, esilio interiore, facendo della sua attività intellettuale, della scrittura soprattutto, uno strumento politico. Popolarissima in tutta l’America Latina presso quanti condividono la sua critica al sistema neoliberista, merita uno spazio maggiore anche nel nostro emisfero, dove è forte e sentito il bisogno di una letteratura militante.
Diamela Eltit predilige approfondire gli effetti del capitalismo sul proletariato utilizzando ambientazioni fatte di luoghi malmessi, claustrofobici, ostili. La sua narrativa è giocata su una sperimentazione linguistica e sintattica estrema, ostinatamente refrattaria a compromessi e a semplificazioni, scarsamente attraente, purtroppo, sia per la filiera editoriale, sia per il più vasto pubblico “generalista”, a caccia di prodotti poco complessi. Manodopera è il romanzo-paradigma della sua scrittura. È la perfetta porta di accesso all’universo dei suoi “libri culturali” – lei stessa li definì in questo modo – includendone tutti gli elementi tipici.
Sotto il titolo Manodopera sono riunite due distinte sezioni narrative.
La prima, Il risveglio dei lavoratori, si articola in otto capitoli-monologhi nei quali il dipendente di un supermercato, con una voce allucinata al limite della schizofrenia, sincopata e spesso trasgressiva, dove parole e struttura della frase non seguono un andamento convenzionale, sintetizza una sua giornata lavoro, metafora della sua stessa condizione di oppresso e al contempo oppressore in quanto ingranaggio del sistema. «Io faccio parte del supermercato come materiale umano accessibile», dice da vessato, ma poco dopo aggiunge da vessatore: «L’attività a cui mi dedico consiste nell’assecondare i supervisori e stigmatizzare i clienti».
La seconda sezione, Puro Cile, è ancora rappresentazione del rapporto tra potere e lavoratori, ma segna una progressione ulteriore. Se, infatti, ne Il risveglio dei lavoratori domina il tema dello schiacciamento dell’individuo, qui Eltit passa a rappresentare l’effetto immediatamente successivo, ovvero il controllo e l’emarginazione delle masse.
Mette quindi da parte il soliloquio, che esprime una prospettiva soggettiva e si allarga ad una dimensione corale. I protagonisti della seconda sezione, infatti, diventano ben sette: Enrique, Sonia, Isabel, Gloria, Gabriel, Andrés e Pedro. Sono colleghi e coinquilini. Lavorano, con mansioni differenti, anch’essi in un supermercato – luogo simbolo delle storture del neoliberismo, eden per il consumatore, inferno per la manodopera – e coabitano, per ragioni di convenienza economica, sotto lo stesso tetto. Nella casa, traslato del tipo di spazio asfissiante, angusto, difficile da sopravvivere, centrale nella produzione di Eltit, va in scena una sorta di grande fratello televisivo. Tra scambi di confidenze, alleanze, tradimenti e complotti, le dinamiche disfunzionali dei protagonisti replicano fedelmente, a danno l’uno dell’altro, le angherie subite al lavoro in nome della produttività e della massimizzazione del profitto. Diversamente dallo spettatore dello show che assiste divertito e coinvolto, il lettore di Eltit punta l’occhio guardingo dove con maestria la scrittrice glielo dirotta. Coglie con limpidezza il marcio e, infastidito, condanna.
Manodopera non è un percorso facile. È un accidentato cammino in salita. Eppure oggi abbiamo l’obbligo di intraprenderlo con una certa urgenza, essendo giunta l’ora di riprendere coscienza della realtà brutale che si profila immutata all’orizzonte.
Recensione di Antonietta Molvetti
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