Paolo Rossi, emerito filosofo e storico della scienza, ci stimola, in un saggio agile eppure denso, a riflettere sul senso che l'atto del cibarsi, umano e disumano a un tempo, ha assunto nel mondo odierno. Venuto in contatto occasionale con i disturbi del comportamento alimentare, l'autore riflette sulle connotazioni per cui un atto in apparenza così naturale, come quello del mangiare, possa assumere temibili caratteristiche auto- ed etero-distruttive. Il testo è anche un excursus coltissimo, sul piano letterario, antropologico, filosofico e, perché no?, culinario, su come l'essere umano rivesta l'oggetto-cibo di una molteplicità di significati differenti che attraversano epoche storiche, tradizioni culturali, scelte politiche e religiose. Il cibo e la sua preparazione, sostiene Rossi, rappresentano indubbiamente "una mediazione tra natura e cultura", dove il rapporto con il cibo sigla la propria appartenenza culturale: dalla mozzarella alle cavallette fritte, ciò che noi mangiamo dice da dove arriviamo. Tuttavia, quando "scarseggia il cibo" o l'atto del cibarsi diventa un modo per veicolare forme di disagio sociale o individuale, "la natura mostra la sua forza e lo sfamarsi diventa una drammatica necessità e i riti e le abitudini vengono accantonate". Diverse sono le "forze della natura" in grado di portare a una condizione di deprivazione alimentare: il digiuno religioso, strumento di purificazione dell'anima, "alleggerita" dei bisogni carnali; la denutrizione causata dalle carestie e dalle guerre, gli scioperi della fame come forme estreme di protesta, e così via. Trovano ancora spazio il fenomeno del cannibalismo, decodificato dagli antropologi come un modo per assimilare civiltà diverse e "digerire" la propria, nonché l'immagine del vampiro, che dalla credenza popolare arriva ai giorni nostri, personificato da chi per nutrirsi ha bisogno di assorbire l'energia vitale degli altri. Attualissimo è il discorso sull'obesità, sempre più diffusa e sempre più causa di morte: l'individuo moderno, facilitato dall'abbondanza e accessibilità del cibo, si riempie fino a "scoppiare", perdendo il piacere del gusto. Di pari attualità, all'estremo opposto, si collocano i modelli che esaltano la magrezza come simbolo di bellezza, efficienza e sicurezza. In sintesi, l'atto pluriquotidiano del mangiare attraversa storia e geografia dell'umanità e consente a Rossi di riproporre alcuni grandi temi di natura filosofica. Come è possibile che ciò che è fonte di sopravvivenza diventi dannoso e causa di morte? I paradossi e le varietà con cui si manifesta la natura umana richiamano alla mente l'opera di De Martino, come fonte di risposte ancor oggi attuali: "Una volta distrutta la convinzione che la natura umana coincida con i modelli assunti come validi dalla propria cultura, è necessario per questo un atto di abdicazione [culturale]? È vero che ogni e qualunque intervento nelle altrui faccende costituisce una forma di repressione?". Ad esempio, di fronte a una persona che decida di non mangiare o a una nazione intera che muore di fame, è giusto intervenire o si pecca di presunzione? L'autore ricorda come spesso persone affette da disturbi del comportamento alimentare vivano le preoccupazioni altrui come delle interferenze "indebite" riguardo alla loro scelta di vita (rinunciare al cibo) "consapevole e non negoziabile". Il mito di Ana (diminutivo di anorexia o anoressia) come simbolo di bellezza, sempre più dilagante nella nostra epoca e rinforzato "dalla disponibilità quasi illimitata di cibo" che caratterizza le società ricche o sviluppate, seppure connesso ad antichi concetti filosofici (esaltazione del digiuno e della magrezza simbolo di saggezza e santità tipica delle filosofie orientali o indiane) non può e non deve essere confuso con una scelta di comportamento ispirato a una filosofia di vita. Giunto al limite dell'esplorazione antropologica e filosofica, l'autore passa il testimone, non senza rammarico, alla psicopatologia. Ilaria Michelini
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