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recensione di Bertini, M., L'Indice 1993, n.11
Compagno di scuola e per tutta la giovinezza amico fraterno di Cézanne, Zola provò per gran parte della sua vita - sino alle soglie del caso Dreyfus - un interesse appassionato nei confronti della pittura. Nel 1866, quando aveva pubblicato due libri soltanto e cominciava appena la sua carriera di giornalista, fu introdotto da un amico pittore nella cerchia di artisti giovani e combattivi che si riuniva al Café Guerbois, nel quartiere popolare delle Barignolles. Di quel piccolo gruppo - di cui faceva parte Fantin-Latour e nel quale comparivano, di tanto in tanto, Claude Monet, Pissarro e Degas - fece immediatamente proprio l'odio violento contro l'arte accademica, i cui rappresentanti, arroccati in solidissime posizioni di potere, controllavano le grandi esposizioni pubbliche (i "Salons"), monopolizzavano premi e riconoscimenti, sbarravano la strada a ogni talento che si discostasse dalle forme consacrare e dai generi tradizionali.
Il "Salon" del 1866 offrì al giovane giornalista l'occasione di farsi portavoce di quel cenacolo di ribelli, cui si sentiva affratellato dall'aspirazione a un'arte radicalmente nuova, che esprimesse "la realtà aspra e sana della natura vera". Nacque così una serie di articoli d'impianto risolutamente polemico: la giuria del "Salon" era oggetto di un attacco circostanziato, che metteva a nudo i meccanismi clientelari in base ai quali venivano ammessi o esclusi gli artisti; il pittore più lungamente analizzato e più esaltato era, paradossalmente, proprio uno degli esclusi, Èdouard Manet, del quale erano state respinte due tele, "Il piffero" e "L'attore tragico". Zola era stato una sola volta nell'atelier di Manet, ma quell'unica visita lo aveva colpito come una rivelazione; gli era parso che le tele di quel pittore costantemente irriso dai borghesi, che aveva scandalizzato la Francia intera con "Olympia" e con la "Colazione sull'erba", "squarciassero i muri". Divenne così il suo campione; nel 1867 gli consacrò uno studio biografico e critico, nel nuovo "Salon" del 1868 notò che finalmente il pubblico si stava abituando al talento "severo" di quel maestro poco accattivante e aveva smesso di sghignazzare scompostamente davanti ai suoi quadri. Dato che uno dei quadri in questione era uno splendido ritratto di Èmile Zola, lo scrittore aveva una ragione supplementare per rallegrarsi del nuovo orientamento dei gusti dei parigini. Alla morte di Manet, nell'aprile del 1883, la sua famiglia organizzò una grande esposizione commemorativa; Zola fu invitato a redigere per il catalogo una nota biografica, che fu il suo ultimo intervento sull'artista, da lui ricondotto, un po' forzatamente, alla poetica del naturalismo ("Egli si è messo semplicemente di fronte alla natura e, come unico ideale, si è sforzato di renderla nella sua verità e nella sua forza").
Il volume che l'editore Donzelli presenta ora in libreria raccoglie tutti questi interventi di Zola su Manet - dal '66 all'83 - basandosi sull'ottima edizione di tutti gli "Ècrite sur l'art" pubblicata presso Gallimard nel '91 da Jean-Pierre Leduc-Adine. Possiamo dire che il Manet che ne emerge è, come lo definiva Marcel Proust, "irreale"? Forse, è un eroe tutto vigore, potenza e rude semplicità, che somiglia in modo inquietante soprattutto a un autoritratto idealizzato dell'autore di "Germinal". Tuttavia, nelle pagine un po' schematiche e autocelebrative dello Zola teorico e critico, fa spesso irruzione un altro Zola: lo straordinario narratore che nel "Salon" del '66 racconta la sua visita all'atelier di un giovane pittore suicida; l'antropologo geniale che coglie ogni sfumatura delle reazioni del pubblico, l'epico stilarore di cataloghi indimenticabili che sferza la pittura accademica descrivendone ha produzione nauseabonda in termini gastronomici degni delle splendide pagine del "Ventre di Parigi".
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