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Macadàm - Paolo Teobaldi - copertina
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Macadàm

Descrizione


Fedele alla deontologia della sua missione civile, il cantoniere Gengoni Selvino percorre e controlla ininterrottamente, avanti e indietro, il cantone che gli è stato affidato, cioè il "suo" tratto di Nazionale (per la precisione attorno al Km 238,491 della Strada Statale n. 16 Adriatica, in località detta Il Curvone), tenendo sempre gli occhi bene aperti, per cui diventa testimone più o meno oculare - dei grandi fatti che la Storia del XX secolo (e degli inizi del XXI) gli srotola davanti, alcuni dei quali realmente accaduti, altri inventati di sana pianta. Il romanzo è un compatto affresco fatto in casa secondo i procedimenti narrativi tipici dell'affabulazione popolare, epico e corale nello stesso tempo: epico per chi ancora sappia apprezzare l'epica "della pacca di fava", quella cioè attenta alle piccole cose oltre che ai grandi eventi; corale perché accanto al protagonista e a sua moglie Isolina pullula una galleria di personaggi minori, che la sanno e la dicono lunga sul Paese reale. La narrazione alterna pagine comiche a pagine tristissime, come capita del resto nella vita concreta: a entrambe, ciclicamente, fa da contrappunto, in una sorta di amaro basso continuo, il dialogo impossibile del cantoniere con suo figlio.
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Dettagli

E/O
2013
29 maggio 2013
188 p., Brossura
9788866323433

Voce della critica

  Con Macadàm Paolo Teobaldi continua la sua saga narrativa e antropologica sull'Italia che cambia, cominciata con Finte (sulla memoria dei morti) e sviluppata con La discarica e con Il padre dei nomi (sulla storia vissuta con gli occhi di un copywriter), attraverso La badante fino a Il mio manicomio. I suoi romanzi sono tra i pochi che mettono in scena un mondo di artigiani, di operai, di lavoranti, di una borghesia popolare compresa nell'esercizio del suo lavoro, con una lingua che ha la stessa precisione e ricchezza dei mestieri che narra. E sempre con un testo segreto, una moralità leggendaria dentro. La discarica per esempio è, sì, sui rifiuti ma anche su quel rifiuto reciproco che è la separazione coniugale. Il romanzo è come un poema musicale che procede per scene, attraverso la storia di Selvino, un cantoniere, e di Isolina, una cuoca, che sono sposati ma senza figli, perché il loro bambino è nato morto, aprendo nella coppia una crepa, mai espressa, ma che li consuma e allontana in modo inesorabile, mentre lei reagisce tuffandosi in un volontariato gastronomico di cui godono tutti tranne il marito. Il quale, curando il suo perimetro di città, ama fare le cose come si deve e, pieno di candore cristiano, non importa se credente, considera il bene di ogni altro come il proprio. Ma sta invecchiando, va in pensione e sempre meno si ritrova in una città in cui le cose non sono fatte più a regola d'arte, mentre le nuove generazioni e mode lo agitano e offendono. Finché non compare un ragazzo straniero scaricato da un camion e venuto da chissà dove. In questa trama, in cui l'ingenuità del sentire è dipinta con abilità straordinaria, l'intreccio sta proprio nello stile, non basato sulla psicologia, ma tutto tradotto in gesti e in descrizioni grazie a una lingua d'artista, orchestrando un sentimento sorridente, percorso da vene di tristezza scettica. E l'impresa di Macadàm è proprio quella di creare con la lingua più precisa un'atmosfera interiore indescrivibile. Il tempo della vita infatti è al centro di tutto, perché c'è la pietà per tutti coloro che non hanno lasciato traccia, se non nella memoria di chi li ha conosciuti. E l'autore vuole richiamarli in vita, come faceva il padre, Washington Teobaldi, falegname e narratore, che è l'ispiratore, se non della vicenda, della sua musica e della sua morale. E c'è infatti l'immersione in una civiltà orale e corale, dove tutto diventa contemporaneo, mentre è convissuto (o così ci si illude che sia) in una comunità. La narrazione è intrisa di uno strano dolore della gioia, di una malinconia del bene, che raggiunge toni tragici proprio in quell'incessante enumerare tutto in modo nitido, nella smania di non dimenticare nulla, quasi le persone e le cose potessero sparire se non le nomini, dipingendo una città dell'utopia non per tratti avveniristici ma per quell'educazione civile fatta di lavoro e di pudore. La città-mondo, mai nominata, diventa così una forma simbolica della vita tutta. Come se raccontando l'aldiquà esso fosse sempre al di là, tanto più in quanto si scherza, si narrano vicende divertenti, si convive con giovialità. Così una storia ne richiama un'altra, in una digressione che è una fuga senza fine, non sai più se per sfuggire a un inseguitore, la morte, o se per inseguire tu, come una donna amata, la realtà. E l'eros traspare in modo delicato nel romanzo, in un aroma femminile o in una visione, come nelle querce di sughero scortecciate che sembrano ragazze spogliate. Così il distacco di Isolina da Selvino, attraverso la cucina negata, ha qualcosa di fatale e imponderabile, che aggrava la sensazione che non siamo noi a vivere la nostra vita, ma è la vita che ci vive, corrente sociale e collettiva nella quale dobbiamo cantare da soli la nostra parte, per un coro che continuerà senza di noi.   Enrico Capodaglio  

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Conosci l'autore

Paolo Teobaldi

1947, Pesaro

Paolo Teobaldi vive a Pesaro. Ha fatto il traduttore, il copywriter e l’insegnante d’italiano. Come narratore ha pubblicato: "Scala di Giocca" (Edes, Cagliari, 1984). Circa dieci anni dopo pubblica "Finte. Tredici modi di sopravvivere ai morti" (e/o, 1995), romanzo con il quale Teobaldi inizia una fortunata collaborazione con l’editore e/o che pubblicherà tutti i suoi successivi lavori. Nel 1998 esce "La discarica", grande successo di critica e di pubblico, che - tradotto in francese, spagnolo, greco e tedesco - gli vale recensori importanti come Tabucchi e Starnone. Quattro anni dopo pubblica "Il padre dei nomi", e nel 2004 esce "La badante" finalista al premio Strega. Nel 2007 pubblica "Il mio manicomio". Del 2013 "Macadàm". Ha scritto inoltre "Arenaria" (E/O...

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