Con Macadàm Paolo Teobaldi continua la sua saga narrativa e antropologica sull'Italia che cambia, cominciata con Finte (sulla memoria dei morti) e sviluppata con La discarica e con Il padre dei nomi (sulla storia vissuta con gli occhi di un copywriter), attraverso La badante fino a Il mio manicomio. I suoi romanzi sono tra i pochi che mettono in scena un mondo di artigiani, di operai, di lavoranti, di una borghesia popolare compresa nell'esercizio del suo lavoro, con una lingua che ha la stessa precisione e ricchezza dei mestieri che narra. E sempre con un testo segreto, una moralità leggendaria dentro. La discarica per esempio è, sì, sui rifiuti ma anche su quel rifiuto reciproco che è la separazione coniugale. Il romanzo è come un poema musicale che procede per scene, attraverso la storia di Selvino, un cantoniere, e di Isolina, una cuoca, che sono sposati ma senza figli, perché il loro bambino è nato morto, aprendo nella coppia una crepa, mai espressa, ma che li consuma e allontana in modo inesorabile, mentre lei reagisce tuffandosi in un volontariato gastronomico di cui godono tutti tranne il marito. Il quale, curando il suo perimetro di città, ama fare le cose come si deve e, pieno di candore cristiano, non importa se credente, considera il bene di ogni altro come il proprio. Ma sta invecchiando, va in pensione e sempre meno si ritrova in una città in cui le cose non sono fatte più a regola d'arte, mentre le nuove generazioni e mode lo agitano e offendono. Finché non compare un ragazzo straniero scaricato da un camion e venuto da chissà dove. In questa trama, in cui l'ingenuità del sentire è dipinta con abilità straordinaria, l'intreccio sta proprio nello stile, non basato sulla psicologia, ma tutto tradotto in gesti e in descrizioni grazie a una lingua d'artista, orchestrando un sentimento sorridente, percorso da vene di tristezza scettica. E l'impresa di Macadàm è proprio quella di creare con la lingua più precisa un'atmosfera interiore indescrivibile. Il tempo della vita infatti è al centro di tutto, perché c'è la pietà per tutti coloro che non hanno lasciato traccia, se non nella memoria di chi li ha conosciuti. E l'autore vuole richiamarli in vita, come faceva il padre, Washington Teobaldi, falegname e narratore, che è l'ispiratore, se non della vicenda, della sua musica e della sua morale. E c'è infatti l'immersione in una civiltà orale e corale, dove tutto diventa contemporaneo, mentre è convissuto (o così ci si illude che sia) in una comunità. La narrazione è intrisa di uno strano dolore della gioia, di una malinconia del bene, che raggiunge toni tragici proprio in quell'incessante enumerare tutto in modo nitido, nella smania di non dimenticare nulla, quasi le persone e le cose potessero sparire se non le nomini, dipingendo una città dell'utopia non per tratti avveniristici ma per quell'educazione civile fatta di lavoro e di pudore. La città-mondo, mai nominata, diventa così una forma simbolica della vita tutta. Come se raccontando l'aldiquà esso fosse sempre al di là, tanto più in quanto si scherza, si narrano vicende divertenti, si convive con giovialità. Così una storia ne richiama un'altra, in una digressione che è una fuga senza fine, non sai più se per sfuggire a un inseguitore, la morte, o se per inseguire tu, come una donna amata, la realtà. E l'eros traspare in modo delicato nel romanzo, in un aroma femminile o in una visione, come nelle querce di sughero scortecciate che sembrano ragazze spogliate. Così il distacco di Isolina da Selvino, attraverso la cucina negata, ha qualcosa di fatale e imponderabile, che aggrava la sensazione che non siamo noi a vivere la nostra vita, ma è la vita che ci vive, corrente sociale e collettiva nella quale dobbiamo cantare da soli la nostra parte, per un coro che continuerà senza di noi. Enrico Capodaglio
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