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Richard David Precht, filosofo tedesco, pubblica in Italia nel 2009 questo interessante volume, che attualizza i temi affrontati dalla filosofia all'età moderna. Il libro è diviso in tre parti dove ci si domanda che cosa posso sapere, che cosa devo fare e che cosa posso sperare. Molto utile la parte finale, con un ampia bibliografia per approfondire ulteriormente i temi proposti.
Recensioni
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Nel Settecento Immanuel Kant riassunse le grandi domande dell'umanità in quattro questioni: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Che cos'è l'uomo?». Sono interrogativi che offrono un filo conduttore anche a questo libro che, in maniera agile e divertente, risponde alle prime tre domande e, tutto sommato, risolve anche la quarta.
Precht parte da Nietzsche e, dalle pagine della Genealogia della morale del filosofo tedesco, cerca una via da imboccare per giungere a conoscere "noi stessi". Si chiede quale metodo applicare per questa ricerca faticosa, e quale aspetto potrebbe avere, il giorno che la trovassimo, quell'entità che da Socrate ai tempi odierni i filosofi hanno pensato come il "noi stessi". Ecco emergere la prima domanda: se tutta la nostra conoscenza, la nostra presunta verità, dipende dal nostro cervello di vertebrati e si svolge al suo interno, è bene chiedersi: perché il cervello umano è fatto così? E noi, «da dove veniamo?». Qui il filosofo, per spiegare come funziona la nostra testa, si rifà agli studi recenti della neurofisiologia statunitense e, per rispondere alla classica questione di cosa significhi «io», utilizza l'esperienza del fisico viennese Ernst Mach. Mach, da buon empirista, sostenne che «l'io non è un'unità immutabile, bene determinata e chiaramente delimitata» e che nel cervello umano non ci fosse un io, ma soltanto una gran confusione di sensazioni in uno scambio continuo con il mondo esterno. Una tesi già proposta dal filosofo scozzese David Hume nel Settecento, il quale definì l'io come «la composizione delle diverse percezioni». Oggi, scrive Precht, i neurofisiologi danno ragione a Mach e Hume: l'io è un'illusione, non esiste nessuna "ghiandola pineale" cartesiana, al massimo possiamo parlare di un processo cerebrale incredibilmente complicato e tanto affascinante da avere ancora le nostre buone ragioni per stupirci di fronte ad esso.
Il saggio prosegue come un viaggio geografico-filosofico attraverso luoghi e discipline, in una panoramica completa degli strumenti che utilizziamo per scoprire noi, gli altri e il mondo: la memoria, il linguaggio, i sentimenti, le scoperte delle neuroscienze. L'autore si spinge sul terreno delle questioni morali che dobbiamo affrontare oggi: fecondazione assistita, eutanasia, ingegneria genetica, aborto, biotecnologie, vegetarianesimo, e su questi temi fondamentali dell'etica chiama in soccorso i maestri della psicologia e dell'etologia.
Anche la terza sezione del libro è ricca di spunti e suggestiva. è dedicata alla possibilità che abbiamo di avere speranza. In essa si affrontano i grandi argomenti della felicità e della libertà, sempre da un punto di vista pratico e divulgativo: l'amore, Dio, il senso della vita. A proposito della libertà, dopo aver osservato che molti neuroscienziati sostengono che noi non siamo liberi bensì prodotti delle nostre predisposizioni, esperienze e educazione ricevuta e che siano i nostri bisogni inconsci a disporre di noi e non viceversa, Pracht recupera una curiosa sequenza che lesse da giovane incisa su una tavola di pietra. Su quella tavola c'era scritto: «To be is to do Socrate. To do is to be Sartre. Do be do be do Sinatra». La libertà starebbe dunque in questa sequenza interminabile tra "fare" e "essere", tra "essere" e "fare": Do be do be do. Come dire che la grandezza o meno della nostra libertà dipende fortemente dalle condizioni di vita, che la nostra autorealizzazione è legata ai mezzi economici in nostro possesso. Ed è buffo che sia Frank Sinatra a ricordarcelo.
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