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Anno edizione: 1994
Anno edizione: 1998
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recensione di Coletti, V., L'Indice 1995, n. 1
Tra romanzo e autobiografia "Ma l'amore no" di Giampaolo Pansa rivive e racconta tre anni di guerra, dal febbraio 1943 al dicembre 1945. Storia e finzione narrativa sono affidati ai ricordi di Giovanni, che all'inizio della vicenda ha sette anni e mezzo. Orientare la narrazione secondo la prospettiva di un bambino è scelta rischiosa per un esordiente che vuole raccontare un'età della vita sua e del suo paese. È una minaccia, sulla scrittura, di proustismo di seconda mano e, sulla realtà ripensata, di nostalgie liriche; e per di più è un espediente già troppo autorevolmente usato e consumato dal romanzo di guerra (basti pensare al "Sentiero dei nidi di ragno" di Calvino). Pansa è riuscito a evitare il pericolo cui pure è andato imprudentemente incontro, mediando il punto di vista del bambino con quello degli adulti.
Giovanni guarda il mondo con gli occhi dei suoi Grandi "di riferimento". E questi "grandi" sono speciali: immuni da sentimentalismi patetici e da manicheismi ideologici, che presuppongono, rispettivamente, un desiderio del passato o un progetto del futuro, essi sono autentiche figure del presente, arrese alle immediate ragioni del cuore e armate della lucida diffidenza della ragione: sono donne, solo donne: la nonna, la madre, le zie. È dietro di loro che Giovanni si affaccia sugli anni terribili di una guerra che l'autore ci tiene a chiamare, sottolineandolo persino in prefazione, "civile", facendo suoi i risultati di una storiografia senza miti e finzioni: guerra tra italiani, dentro la stessa città, nello stesso caseggiato. La franchezza antiretorica della rievocazione è garantita da queste donne fiere e passionali, coraggiose e schiette e perciò, istintivamente, si vorrebbe dire con parole abusate: antifasciste e laiche, nemiche della menzogna e della violenza, indifferenti, incredule quasi, davanti a ogni oltranza ideologica. È dal loro balcone materno e sfrontato, lucido e generoso, che il bambino guarda il mondo degli adulti, la politica, la guerra.
Nel suo ricordo la storia prende corpo e senso attraverso i sentimenti, le passioni malcelate della nonna, i sospiri silenziosi della madre, la frenesia generosa delle zie. I fascisti e i partigiani, gli uomini, sono allora figure concrete, vere, viste dentro una città, Casale, percepite attraverso gli umori, gli affetti delle donne, giudicate attraverso le voci dei portici, dei cortili, dei negozi in cui tutti vivono coltivando, in un crescendo drammatico, l'amore e l'odio, la solidarietà e l'avversione reciproca, i propri sogni di gloria, i deliri di vendetta. Così anche quando ne escono delle caricature, troppo odiose e "cinematografiche", come quelle dei gerarchi fascisti e, in particolare, del farmacista hitlereggiante, prevalgono sempre il genuino stupore e il silenzioso scandalo di chi sorprende nel vicino di casa un mostro insospettato, nei compagni un nemico detestabile, in volti familiari lo spettro della pura malvagità o il tarlo dell'ossessione ideologica. Neppure l'universo politicamente e umanamente vicino e amico a Giovanni e alle sue donne, quello degli antifascisti e dei partigiani, esce fuori dalla contraddittoria concretezza del reale: la dignità, la superiorità degli ideali che difende non impediscono al partigiano - è la storia di Nino - di farsi complice dell'omicidio politico di un amico, o alla vittima - il ragionier Galimberti - di essere patetico e ridicolo nel suo comunismo senza macchia nelle sue analisi apocalittiche della congiura mondiale dei potenti.
In epigrafe al libro, una splendida citazione di Elie Wiesel ("Il passato non è così lontano. Molti si ostinano a ricordare. E non dimenticheranno mai") offre una chiave di lettura "militante", che è tanto condivisibile politicamente e culturalmente, quanto pericolosa letterariamente (solo pochi eccellenti, come Levi, hanno evitato, in Italia, lo scivolone insito nell'impegnativo connubio. Lo aveva capito, già dagli anni sessanta, Italo Calvino; lo ribadisce in questi giorni Milan Kundera ("I testamenti traditi"): la bontà delle motivazioni ideali non garantisce quella del romanzo. Pansa è riuscito a coniugare l'una con l'altra: lo ha aiutato, non c'è dubbio, la voglia di conoscere e rappresentare propria del suo modo schietto e dissacrante di fare giornalismo.
Ma questa vicinanza poteva trasferire sulla pagina del romanzo anche ciò che non convince nei suoi editoriali. Mi riferisco allo stile. Non avendo mai troppo amato lo stile un po' truculento del Pansa saggista, avevo affrontato la lettura di questo libro con qualche pregiudizio sul versante della scrittura. Invece, la felicità del taglio narrativo si riflette anche nel linguaggio, che si giova dell'estro del giornalista con misura e quasi sempre con proprietà di soluzioni. I linguisti potranno scrutinare con soddisfazione la lingua di questo romanzo (che non a caso si apre con un omaggio a Fenoglio), i suoi scoperti dialettismi (roggia, bealera, barbellare, tola...), le sue piacevoli invenzioni (fitte specie nel settore verbale: inserpentare, impermanentare, moschettare, cuoiare, ma anche tra gli aggettivi: piaciosa, ragazzosa, tardosissimo...), ma nessuno potrà ritrarsi infastidito da quelle eccessive esibizioni "oralistiche" che infarciscono gli articoli di Pansa (semmai è la sintassi a essere, a volte, troppo tributaria di quella iperparatattica e decisamente "nominalistica" del giornalista). Si può allora apprezzare anche di più, proprio per la rinuncia a soluzioni "ad effetto", l'immediatezza, la freschezza autentica, non vistosa, non truccata, dello stile del libro. Da questo punto di vista, anzi, "Ma l'amore no" restituisce al romanzo quella finzione di oralità che proprio il giornalismo alla Pansa gli aveva rubato per impiantarla, con esiti non sempre convincenti, nel dominio della saggistica, del commento; anche questo pareggio dei conti va nell'attivo del libro.
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