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Una nostalgia al passato dlle manifestazioni musicali, la vita vissuta, l'ideale della ragazza americana e l'estate. Questo album è come una vacanza sulla west coast
Davvero un album impeccabile in tutti i sensi. Una grandissima evoluzione dell'artista dall'album precedente. Credo che ogni traccia sarebbe potuta diventare un successo mondiale come del resto tutte le sue canzoni. Inoltre la sua voce è davvero magnifica soprattutto nella titletrack. Insomma per tutti i fan e per gli amanti della musica pop è davvero un album indispensabile. Un acquisto imprescindibile per gli amanti dell'artista in questione che non può assolutamente mancare nella propria raccolta di musica. Compratelo, davvero!
"Lust For Life" è un progetto in movimento che cerca di aprire nuovi orizzonti senza perdere identità, ed è anche l'album più esplicitamente politico di Lana: le riflessioni di "Coachella - Woodstock In My Mind" e il femminismo non militante di "God Bless America, And All the Beautiful Women In It" confermano una sensibilità sociale e civile molto delicata, ma è nella già citata "When The World Was At War We Kept Dancing" che l'artista imbraccia le armi e stimola le coscienze ("È la fine di un'era? È la fine dell'America? No, è solo l'inizio, se continuiamo a sperare, avremo un finale felice, quando il mondo era in guerra prima, abbiamo continuato a ballare, e lo faremo ancora"). Con questo album Lana Del Rey perfeziona la sinergia tra passato e presente. Un'altra piacevole conferma di un'artista dotata di stile e personalità.
Recensioni
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Sono passati 6 anni da quando l’ipnotico video collage di Video Games, il primo singolo di Lana Del Rey, emerse da Youtube e ci riempì le orecchie, gli occhi e i cuori di un inedito, dolcissimo struggimento. “Questo video mi dà nostalgia di cose che non ho mai personalmente vissuto” è l’acuto commento di un fan. Ci si chiedeva chi fosse la strana creatura che compariva tra i frammenti di un’America scintillante e lontana.
Più la si guardava e ascoltava, più fiorivano i dubbi: è autentica o costruita? È splendida o deforme? Sa cantare o no? È un genio o un’oca? Davvero a 16 anni era già alcolizzata? E suo padre è un milionario? È vero che prima di reinventare il suo aspetto e il suo sound aveva già pubblicato due dischi, Sirens e Lizzy Grant, passati del tutto inosservati e poi improvvisamente scomparsi dal web?
Born to Die era un album così diverso dai dischi pop a cui eravamo abituati. Parlava di relazioni distruttive, perversioni, masochismi e flirtava sfacciatamente con la morte. Ma non erano solo i testi e i video patinati che accompagnarono i singoli Born to Die e Blue Jeans, a turbarci e deliziarci. Anche quello che sentivamo ci stupiva: sonorità inedite che pescavano dal passato, parole ammorbidite dalla polpa gommosa delle labbra rifatte, voce camaleontica.
Quell’estate Cedric Gervais partorì un remix di Summertime Sadness e Lana Del Rey la cantavano tutti. Nel dicembre del 2013 uscì Tropico, il mini film onirico-biblico che metteva insieme tre tracce dell’Ep Paradise. Nel 2014 Ultraviolence proponeva un’auto-narrazione più rock e (ancora più) dannata: salì al numero 1 nella classifica U.S.A. Nel 2015 arrivò un tour del Nordamerica con Courtney Love e Grimes e il quarto album, Honeymoon: il più deprimente, claustrofobico e artisticamente valido.
Almeno fino all’uscita di Lust for Life. Disponibile dal 21 luglio, era già scaricabile qualche giorno prima (Del Rey ha commentato al leak su Twitter apostrofando i suoi fan: “You little fuckers”). Preceduto da Love (un pezzo più sereno del solito, ispirato, ammette lei, dall’ascolto ossessivo delle Shangri-Las) e Lust for Life (il fin troppo orecchiabile duetto con The Weeknd) il disco è senz’altro il più ambizioso e consistente nella carriera di Del Rey con ben 16 brani e diverse collaborazioni: A$AP Rocky, Stevie Nicks, Playboi Carti e Sean Ono Lennon.
Con The Weeknd aveva già lavorato nel 2016, cantando due canzoni di Starboy. Lui ricambia passeggiando sulla scritta Hollywood nel video di Lust for Life. Decisamente kitsch, entrambi firmati Rich Lee – i video dei due singoli hanno stupito per la loro debolezza estetica in confronto ai precedenti. Qui Lana non è affatto magnetica, inquietante e irresistibile – è soltanto graziosa.
Col passare degli anni Del Rey continua a dimostrare di essere a suo agio con il ruolo che ha scelto di rappresentare, ma allo stesso tempo in grado di crescere e rinnovarsi. Anni fa ci si chiedeva se era autentica o costruita. Sembra un dubbio così stupido, adesso. Del Rey ha innanzitutto dimostrato che è fedele a se stessa. Malinconica, languida, calma e floreale, ossessionata dall’idea di certe atmosfere del passato, dal desiderio di libertà, da una particolare forma di mal d’amore da ricercare e accudire. Ma c’è qualcosa di diverso in questo album.
In copertina, si vede Lana sorridere. Liberata dal ruolo di poetessa full-time della devastazione one to one, sembra essersi accorta del mondo intorno a lei. Non può più permettersi, oggi, di sventolare bandiere americane o dichiarare di non essere femminista. “L’America è finita?”, si chiede, e ogni volta che canta “Dio benedica l’America e tutte le sue donne bellissime”, due colpi di pistola le fanno da contrappunto.
Sì, l’aria che circola tra i brani è diversa. La nebbia salmastra dell’ossessione non occupa tutta la scena. Dall’orizzonte arriva un vento potente, temporalesco: nel primo album plurale di Lana Del Rey ci si ritrova uniti, lucidamente in attesa. Di cosa? Forse un’apocalisse, forse una liberazione.
Recensione di Clara Mazzoleni
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