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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 2005
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Sempre più il principio dell'"ispirazione" in poesia va lasciando il passo a quelle che definiremmo forme di autocommittenza, che vedono l'autore in versi porsi alla ricerca di temi forti, di nuclei di invenzione e di progetto sui quali lavorare. Probabilmente dietro il traino delle produzioni editoriali di narrativa, la poesia sembra ormai avere secolarizzato il suo punto di vista; più che lo stato di grazia, torna a prevalere il "buon soggetto" goethiano, così che la presa sull'esterno spettacolare dei fatti, il suo esito mondano immediato, prevale su quello che tradizionalmente (e ambiguamente) si definiva trasalimento soggettivo. O forse ciò che è mutato è unicamente il punto di vista dal quale si guarda il problema: non dimentichiamo che ormai non pochi anni fa Bertolucci imprimeva una svolta vigorosa al sistema dei modelli con l'imponente epopea della Camera da letto . E di storie come quella che Luciano Cecchinel ora rielabora in versi si va nutrendo una parte via via crescente della poesia di giovane generazione in Italia, forse assediata, contemporaneamente, dall'angoscia del deserto dei fruitori e dal disagio della perdita di radici di gruppo e generazionali.
Cecchinel inventa una propria solida e appassionata piattaforma, sulla quale l'eco pascoliana di Italy , il poema dei migranti in Nordamerica del quale le memorie letterarie hanno celebrato da poco il secolo di vita, sembra avere agito come modello esplicito: "A Caprona, una sera di febbraio, / gente veniva, ed era già per l'erta, / veniva su da Cincinnati, Ohio ". Ma ecco, in direzione inversa, un incipit del nostro autore veneto: "solo un po' oltre l'Ohio River / spaurita contro il vento e la neve / c'è una valle a cui ritorno / per storie sfinite e sogni...". Mi pare evidente che l'adozione del modello soggiacente costituisca la "doppia" piattaforma dell'autocommittenza e rafforzi le garanzie relative al controllo della tradizione, anche se in realtà lo sperimentalismo linguistico di Cecchinel, che talvolta sembra avere affidato al fervido apparato di annotazioni in paratesto i suoi momenti più originali, rimane un fatto di superficie; vi si muovono a tratti gerghi di italoamericani assieme a tracce del dialetto dell'agro trevisano; quest'ultimo è il luogo di origine, il punto di ricomposta unità di questa epopea contadina che si riscatta dall'anonimato. Sulle tracce di questa epopea l'autore veneto si è posto concretamente, ripercorrendone a ritroso i rami e identificandosi nel doloroso stupore che fu il clima duro degli "spaesati" di un tempo.
In definitiva, però quella che prevale è la tradizione lirica della scrittura, e ciò crea un avvertibile, ma a volte anche un po' destabilizzante, sistema di dislivelli tra i due diversi "libri" che sono in un testo solo e cioè, appunto, da un lato la tradizionale emozionalità lirico-affettiva che è l'energia interna a questa scrittura, e dall'altro il vigoroso e direi più originale "romanzo" che l'apparato di note ci mette a disposizione almeno come impianto di base, che però finisce per funzionare in modo autonomo in quanto fonte ricca di informazioni antropologiche relative sia alle forme dell'adattamento di nuovi soggetti a un ambiente sconosciuto, sia al processo di formazione di nuovi miti collettivi che diano un senso alla comunità sradicata. E i materiali su cui fondare questa mitopoiesi sono di necessità eclettici e fortemente stimolanti.
Giorgio Luzzi
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