Giamaica, inizio Ottocento. La vita di July comincia con lo stupro della madre, la schiava Kitty, compiuto dal sorvegliante della piantagione. Il romanzo apre con questa scena, agghiacciante nella sua banalità; e il parto della bambina è suggellato da un'altra brutale ovvietà: "Mi raccomando con quel bambino. Varrà un sacco di soldi". July però non viene venduta, ma semplicemente tolta alla madre per soddisfare un capriccio della padrona, che la vuole come sua cameriera personale. A nulla vale la disperazione di Kitty, confortata da un'amica: "La tua chiquita farà pipì su un trono (
) Devi essere felice. Miss July nella grande casa! Ti rendi conto? Avrà le scarpe!". Dalla prospettiva della "grande casa", July assiste alla quotidiana negazione dell'umanità nel sistema schiavista, con le sue indicibili violenze: le rivolte degli schiavi, la guerra battista del 1832, gli anni di transizione con il cosiddetto "apprendistato" e la successiva abolizione della schiavitù nel 1838, la fame e lo sfruttamento dei decenni seguenti fino alla fine del secolo.
In The Long Song, però, la Storia sfiora appena le vite dei personaggi. Spina dorsale del romanzo è la ricostruzione della vita quotidiana della piantagione, dove i rapporti tra schiavi sono avvelenati da una minuziosa gerarchia di sfumature di carnagione e di sangue. Nel rapporto con i bianchi, gli schiavi mettono in atto una serie infinita di astute strategie per ottenere sempre il massimo, irritare gli odiati padroni e al contempo uscirne indenni, ispirandosi al ragno-briccone Anancy dei racconti popolari July è irresistibile quando si fa beffe della padrona, dalla quale si fa insegnare a leggere. La presenza del comico anche in un contesto così sconvolgente è uno dei motivi del fascino di quest'opera. Dopo il successo di Un'isola di stranieri, che in una simile chiave racconta la nascita del multiculturalismo britannico attorno alla seconda guerra mondiale (cfr. "L'indice", 2006, n. 4), Una lunga canzone (candidato al Man Booker Prize 2010) ricostruisce un passato ancora più lontano per offrire, dichiara l'autrice, un orgoglioso tributo alle conquiste dei propri padri.
Tra queste conquiste vi è quella della parola. Thomas, il figlio che July ha abbandonato al pastore battista ed è cresciuto in Inghilterra diventando un editore di successo, torna in Giamaica e ritrova la madre ormai anziana e derelitta, accogliendola nella sua famiglia. È July stessa che, finalmente libera dalla fame, si dedica faticosamente a scrivere la propria storia; poco alla volta, capitolo dopo capitolo, soffre per dover rivivere ciò che non vorrebbe ricordare, discute e litiga con il figlio che pubblicherà quelle pagine ("Lettore, mio figlio dice che questo [lo stupro di Kitty] è un incipit sconveniente per un racconto"), imparando a conoscere lui così come la nuora e le nipotine. Levy appronta sapientemente questa cornice metanarrativa e mette così in risalto la transizione da oralità a scrittura: le parole d'inchiostro di July si alternano tra un registro formale (anche perché Thomas opera un po' di editing) e squarci più vernacolari nei momenti di maggiore pathos, mentre i dialoghi tra schiavi sono in puro patois. Peccato davvero, e in certi punti davvero inspiegabile, che la poco accurata edizione italiana tenda a uniformare in un italiano omogeneo queste varianti linguistiche identitarie, aspetto indimenticabile della versione originale.
Pietro Deandrea
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