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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2008
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Un'analisi profonda e veramente illuminante sul legame tra lingua e totalitarismo. Una prospettiva particolare e ricca di spunti per scavare in uno dei periodi più bui della storia umana.
I libri che parlano della Shoah sono, per fortuna, moltissimi e raccontano di esperienze dirette, sono frutto di approfonditi studi storici e in genere esaminano questo tragico fenomeno con un approccio globale, pur cercando di evidenziare motivi che ancor oggi, oltre che apparire demenziali, non riusciamo del tutto a chiarire. Il nazismo non è stato solo un caso politico, ma ha voluto fortemente rappresentare una nuova idea di società basata sulla violenza non solo fisica, ma anche verbale. Al riguardo, Victor Klemperer, insegnante al’Università di Dresda, da cui fu costretto a dimettersi per le leggi razziali, ha scritto fra il 1933 e il 1945 dei diari, frutto di un’osservazione attenta, non disgiunta da una riflessione approfondita, in cui da catedrattico di Filologia spiega come sia possibile che la lingua di un regime totalitario, se sapientemente diffusa, a piccole, ma ripetute dosi, diventi un veleno devastante in grado di trasformare perfino la coscienza di un popolo, fosse anche il più evoluto, il più colto, il meno recettivo. E’ allora che la lingua non diventa solo uno strumento per comunicare, ma un’arma che consente da un lato di omologare tutti al pensiero del capo e dall’altro un’arma altrettanto feroce che rimuove lo spirito critico, ricaccia nel più profondo il senso individuale di umanità. Se questo libro vuole essere una particolare testimonianza, finisce anche però con il diventare un monito, una raccomandazione di stare ben attenti a come il linguaggio cambia, come vengano coniate nuove parole (al riguardo facebook è una miniera inesauribile) perché dietro c’è sempre un disegno, il tentativo di classificare la gente in amica e nemica, il disprezzo del pensiero individuale per arrivare a imporre quello collettivo conforme ai voleri di chi comanda.
Difficile sottovalutare l'importanza e l'efficacia di questo libro nel descrivere - dal di dentro, nel corso del suo divenire - l'invasività cancerosa di un meccanismo linguistico che, attraverso i grimaldelli di una propaganda martellante, arriva a crackare le difese mentali e culturali di un popolo, inoculando patologie del pensiero. L'oggettività della riflessione non viene mai meno, nonostante il coinvolgimento dell'autore nella tragedia. E i frutti di questa lucidità sono abbondanti: il nazismo visto come figlio degenere e impoverito del romanticismo; disamine acute sul concetto di "popolo ebraico", sullo sviluppo del sionismo, sulla storia della cultura tedesca. E in ultima analisi si comprende con grande chiarezza come una deriva aberrante e mostruosa possa essere preparata - e persino resa accettabile - dall'anestesia del "senso" delle cose, operata attraverso lo stravolgimento linguistico. Una lezione estendibile ad ogni sistema sociale in grado - se non controllato - di condizionare drasticamente gli strumenti del pensiero e dell'emozione di massa. La Giuntina è una casa editrice specializzata nella riflessione interna all'Ebraismo: questo libro sicuramente dovrebbe uscire da questo "recinto", ed essere meditato come libro di formazione.
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