È Susanna Basso che ci insegna a guardare alla traduzione letteraria come a un "tempo di attesa" (Esperienze e divagazioni militanti, Bruno Mondadori, 2010). Sotto la lampada, nel cerchio chiaro di una luce che illumina e isola, si instaura un rapporto esclusivo tra chi traduce e le frasi che aspettano di essere restituite in un'altra lingua. È un nuotare lento nella scrittura dell'autore, tra i marosi dei silenzi che separano l'originale dal futuro tradotto. È una fase sospesa in cui tuttalpiù ci si può concedere la temporanea zattera dei dizionari come unico baluardo del provvisorio, in attesa della scialuppa salvifica della memoria. Perché, aggiunge Basso, aspettare le parole significa "fidarsi di un meccanismo speciale della memoria, in grado di farci ricordare qualcosa che, personalmente, non conosciamo" ma che, da lontano, ci guida nella scelta più giusta: "Tradurre è un po' come avere interi romanzi sulla punta della lingua, e perciò sapere che la sensazione assomiglia a una forma di tormentosa amnesia nella quale l'unico ricordo certo è che si è dimenticato". Nessun dizionario, perciò, risulta totalmente efficace; è piuttosto la memoria e la memoria soltanto a ricordarci come tradurre un intero contesto già assorbito. Per Basso, che alle parole di Barnes ha dedicato ormai qualche anno della sua attività, dev'essere stata, quest'ultima, un'attesa più paziente del solito. Perché Livelli di vita è, a sua volta, un tardo esercizio traduttivo. E dunque un esercizio della memoria. Composto a cinque anni dalla morte per cancro dell'adorata moglie, l'agente letteraria Pat Kavanagh, l'ultimo libro di Julian Barnes è anche una sorta di scongiuro: "La memoria, ‒ ci confida ‒ l'archivio fotografico della mente, sta venendo meno". Ed è forse per timore di un azzeramento dei ricordi, di una doppia perdita, del presente e del passato, che lo scrittore fissa lo sguardo sul dolore, sulle mancanze, sulla morte, sul lutto, e non mostra nessun pudore nel chiamarli con i loro nomi. Sono quelle le parole che alcuni amici e conoscenti, i "Sacerdoti del Silenzio", evitano di citare, usando metafore ed eufemismi ("spegnersi", per esempio, "come un abat-jour? come una radio?"), non capendo invece che sono proprio loro gli unici a poter avvalorare trent'anni di vita insieme, i testimoni di un'esistenza a due "spenta" in quei brevissimi infiniti trentasette giorni intercorsi tra la diagnosi e la morte. "La malattia ‒ scriveva Susan Sontag, ‒ è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa". Perché tutti noi nasciamo con una doppia cittadinanza "quella dello star bene e quella dello star male" e talvolta siamo costretti a riporre nel cassetto il passaporto buono e a riconoscerci cittadini di quell'altro paese. Ma i dolenti non credendo che la morte sia un fallimento della medicina, si irritano quando gli altri "evitano perfino il semplice uso di un nome". Da ex lessicografo qual è, Barnes sa bene (proprio come la sua traduttrice) che alcune verità sono indicibili, che alcune parole non hanno equivalenti pieni, che non esiste "un'età dell'oro nella quale parole e significati abbiano coinciso (
). Le parole nascono, vivono, decadono, muoiono. È solo l'universo linguistico che fa il suo mestiere, nient'altro". È la stessa frase che si ripeteva tornando a casa in macchina dall'ospedale: "È solo l'universo che fa il suo mestiere", riconoscendo che un'altra cosa che si perde, quando una persona amata muore, è la sensazione che vi sia un disegno nelle cose, un'illusione che gli scrittori condividono quando sperano che le loro parole "possano arrivare a comporsi in idee, storie, verità". La loro salvezza. Come salvarsi, allora, dalla Sehnsucht (termine appunto non traducibile in inglese, ci dice Barnes), dalla straziante solitudine di una comunicazione interrotta ("Tutti quei 'noi' annacquati in un 'io'")? Come armarsi di un'argomentazione più forte della tentazione di un suicidio? Se, come asseriva Ford Madox Ford, "ci si sposa per proseguire la conversazione", come si può continuare ad alimentare un dialogo con chi non è più vivo, eppure non ha mai smesso di esistere? Semplicemente, continuando a parlarle, tenendo in vita una lingua privata e perduta che è priva di valore se spiegata a un estraneo, continuando a credere nella sua presenza in assenza, continuando a vivere in un "tempo verbale intermedio, il presente-passato", nell'attesa che, un giorno, il "tropico del dolore" assottigli la sua linea orizzontale, che le nuvole siano spazzate da una brezza inattesa, che soffi, possibilmente, verso l'amata Francia. È lì, infatti, che si apre la narrazione e che comincia, anche per noi lettori, il tempo dell'attesa. Perché prima di essere trascinati nella "tempesta di nostalgia" di Barnes, siamo intrattenuti con altri racconti, addirittura con altri generi di scrittura. Se Perdita di profondità è un memoriale di disarmante schiettezza e crudeltà, la prima sezione (Il peccato dell'altezza) è un saggio storico che si concentra su tre figure. Incontriamo, inizialmente, Félix Tournachon, dalla chioma e dallo spirito fiammante, meglio conosciuto come Nadar: una geografia egli stesso. Per primo si era calato nel ventre di Parigi a rubare scatti rivoluzionari alle fogne e alle catacombe, e poi si era innalzato nei cieli della città con Le Géant, un aerostato "di proporzioni straordinarie", mettendo insieme "due cose che insieme non erano mai state": l'aeronautica e la fotografia. E anche se nel 1858 i suoi esperimenti erano falliti miseramente, è a lui che siamo debitori per aver osservato noi stessi da lontano, per aver reso "il soggettivo all'improvviso oggettivo". Poi c'è "la divina" Sarah Bernhardt. Aveva volato nei cieli francesi in una mongolfiera arancione in compagnia di un amante, "scaricando spensieratamente zavorra sugli umili spettatori terragni". L'ultimo è il colonnello Fred Burnaby della cavalleria della guardia reale, che nel 1882 aveva compiuto l'impresa di attraversare la Manica. Cinici e sprezzanti del pericolo, questi "nuovi Argonauti" avevano tutti ceduto al peccato dell'altezza sfidando gli dei, finché Barnes non li costringe a tornare sulla terra e a fare i conti con il "piano orizzontale" al quale tutti noi siamo destinati. E, soprattutto, con l'amore "il punto d'incontro fra verità e prodigio" e con i suoi voli, a cui continuiamo dissennatamente ad affidarci, condiscendendo alle correnti, bilanciando i pesi, rischiando sempre cadute rovinose. Come nella storia immaginata in Con i piedi per terra, in cui il colonnello Burnaby, autoingannandosi, viene letteralmente scaricato come una zavorra dall'evanescente sottile Sarah, così sottile da passare senza bagnarsi tra una goccia di pioggia e l'altra. E se tutte queste storie intrecciate costruiscono "l'impalcatura in cui inserire il lutto" di un uomo addolorato, ciò che rimane assente nel libro è proprio il nome di lei, Pat, che Barnes non cita nemmeno una volta. Basso scrive che i nomi propri, "gli intraducibili, sono gli ultimi a spegnersi, ad attraversare il confine dell'afasia". Qui, al contrario, il suo nome è l'unica cosa che manchi, l'unico pudore che Barnes si concede. La sua Pat è un universo intraducibile, e "ciò che viene meno è più della somma di ciò che c'era". Daniela Fargione
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